Un viaggio in aereo sarebbe stato più comodo…

“Lady tuk tuk! Lady tuk tuk!”

Le strade sono invase da questi risciò motorizzati che in Indocina chiamano tuk tuk. Tutti i conducenti che mi vedono a piedi mi chiamano con il braccio alzato per vendermi un passaggio.

Siem Reap, la città che ho raggiunto via terra dalla Thailandia, è un continuo di clacson e veicoli di vario genere che sfrecciano in ogni direzione senza curarsi dei sensi di marcia. Agli incroci vale la legge del più forte. Lungo le strade guidatori di tuk tuk riposano all’ombra di capanne polverose su amache improvvisate in attesa dei turisti di ritorno dai templi di Angkor. I motorini sfrecciano con a bordo tre, anche quattro persone schivando con destrezza galli, cani randagi, curiosi macachi diffidenti e pelosi maiali neri che rovistano nella spazzatura a bordo strada.

Sono arrivata in Cambogia da Bangkok su un autobus tailandese attraversando il confine a Poipet, una squallida città di frontiera animata da cadenti casinò dai nomi altisonanti. Qua vengono a giocare i tailandesi poiché in patria la legge vieta il gioco d’azzardo. Per loro entrare nel Regno di Cambogia è semplicissimo: basta attraversare il lungo corridoio sulla strada che porta a Poipet. In quanto cittadini di uno stato membro dell’Asean (Association of South East Asian Nation) non hanno bisogno di sottoporsi ai controlli doganali che vengono richiesti ad altri stranieri.

La burocrazia riservata agli occidentali invece è fatta di lunghe file, moduli, timbri e ovviamente soldi. Il visto cambogiano all’arrivo costa 30 dollari statunitensi e 100 baht tailandesi. La prima somma entra nelle casse dello stato, la seconda nelle tasche dei funzionari di frontiera. La Cambogia, penso mentre consegno la “mazzetta” al funzionario seduto dietro al vetro, è al 160° posto nella classifica mondiale sulla corruzione. Si tratta comunque di poca roba: poco meno di 3 euro, una cifra che anche il più squattrinato backpacker può permettersi di sborsare; e comunque non c’è scelta, la bustarella va pagata, e chi si presenta solo con la somma “ufficiale” viene rispedito, in modo sbrigativo e senza alcuna spiegazione, in coda alla fila. Se ci si incaponisce alla fine si ottiene comunque il visto, ma si allungano le pratiche e fare la fila da capo più volte può essere irritante.

Il viaggio di sei ore e le lungaggini burocratiche non sono state le uniche cose stancanti della giornata. Solo poche ore prima, nella capitale tailandese, avevo passato un bel po’ di tempo a cercare la stazione di Mo Chit servita dalla compagnia di autobus diretti in Cambogia.

Bangkok è una città che si ama o si odia, non ci sono mezze misure. Io la amo, ma riconosco che spesso può risultare esasperante. A Bangkok non si può dare nulla per scontato, anche una stazione grande come quella di Mo Chit va cercata con molta pazienza e sesto senso. Infatti non si trova affatto all’uscita dell’omonimo capolinea dello Sky train, la metropolitana della città, ma a tre chilometri di distanza svoltando più volte, senza l’ausilio di indicazioni stradali. E anche una volta arrivati, bisogna continuare con fede a cercare perché la prima cosa che si trova è una stazione poco frequentata con vetture sgangherate parcheggiate sul piazzale assolato. Si tratta del terminal di autobus urbani, quello delle partenze nazionali e internazionali è nascosto dietro un dedalo di bui vicoletti in terra battuta dell’ennesimo bazar di strada di Bangkok, tra galline appollaiate sui tavoli e venditori di borse contraffatte e telefoni cellulari.

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