Se il mondo è tondo io sono così a est che sto quasi a ovest

I chilometri passano, i fusi orari cambiano, i giorni e le notti si inseguono e dopo tanto peregrinare verso est sono infine giunta dove i binari muoiono e la Transiberiana finisce. Oltre non si può andare, oltre c’è l’oceano e, di fronte a me da qualche parte, il Giappone. Insomma, sono arrivata a Vladivostok, l’avamposto russo sul Pacifico. Una targa sul binario 1 della stazione tiene il conto dei chilometri percorsi fin qui. Da Mosca sono 9288, ma i miei sono un po’ di più perché il mio viaggio in Russia comincia a San Pietroburgo. Circa diecimila chilometri di strade ferrate separano il Baltico dal Pacifico.

La soddisfazione di avercela fatta mi viene però presto smorzata quando vado a fare il biglietto per assicurarmi il ritorno nel “lontano ovest”. Dopo mezz’ora di una disordinata fila la bigliettaia, una donna scontrosa che si mostra parecchio infastidita dal fatto che io conosca solo una decina di parole in russo, mi spiazza. Nessun posto disponibile da qui a sei giorni, mi comunica spazientita, dopodiché potrò salire su un treno diretto a Ekaterinburg, la capitale degli Urali. Prendere o lasciare; non ho altra scelta: prendo. Così mi trovo bloccata in questo lembo di terra ai confini della Federazione Russa.


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È un posto strano Vladivostok. La città, fondata nel 1860, è adagiata su una remota penisola sull’orlo della Russia e si protende verso le due Coree guardando in faccia il Giappone. In soli dieci anni dalla sua nascita divenne un’animata base navale trafficata da mercanti stranieri e l’inaugurazione della Transiberiana, di cui è il capolinea, la fece prosperare ulteriormente. Oggi è una metropoli in divenire, in perenne costruzione, dove le gru innalzano grattacieli, nuovi cantieri si adoperano per riqualificare vecchi pontili e tirano a lucido gli storici palazzi di epoca zarista.

Ovunque si guarda, mare. Prima di essere una città infatti Vladivostok è un porto votato al commercio pesante, caratteristica che la rende dura e metallica a dispetto della splendida natura da cui è circondata. Lunghe navi mercantili attraversano la baia, detta “Corno d’oro” per la somiglianza con quella di Istanbul, mentre giganteschi container colorati giacciono sulle banchine di cemento in attesa di essere prelevati dai massicci bracci meccanici all’opera anche di notte. Ma Vladivostok è anche, e forse soprattutto, una base militare che gode di una posizione strategica. Tante le navi della Marina ormeggiate, tanti i marinai che animano la città.

Questa vocazione militare non mi stupisce affatto: è noto che la Russia è oggigiorno uno dei paesi che investe di più nella Difesa. Tra il 1992 e il 1996, il programma di riduzione dei finanziamenti, voluto da Eltsin, aveva portato a dimezzare i contingenti e a ridurre la forza d’urto russa in ambito militare. Tuttavia in seguito agli interventi dell’alleanza nord atlantica nei Balcani alla fine degli anni Novanta, la Russia mise in discussione la propria politica sugli armamenti. L’inversione di marcia portò i successivi governi a ripristinare gli investimenti destinati alla Difesa, che rimangono tuttavia inferiori a quelli statunitensi. Nel 2013, secondo Military Balance, gli Usa hanno speso 600 miliardi di dollari in potenziale militare contro gli 81,4 della Federazione Russa.

Vladivostok non è solo il principale porto industriale e militare del paese, ma anche la città della nebbia, come noto ben presto. Nei giorni della mia permanenza forzata, dei due ponti dalle futuristiche linee pure che attraversano la baia, riesco a vedere solo alcuni tiranti che sembrano sospesi nel nulla. Stralci di ponte che spariscono inghiottiti dalla nebbia bianca.

Nonostante il clima poco invitante, nella mia ultima giornata in città Katia e Yelya, amiche di una mia conoscenza di San Pietroburgo, mi propongono di andare in spiaggia. Alzo gli occhi al cielo: continuo a vedere solo basse nubi, ma accetto l’invito perché mi pare di capire che per i russi di Vladivostok, nebbia o meno, se è estate si va al mare. Così prendiamo il nostro pranzo al sacco acquistato al supermercato e ci dirigiamo in automobile a una mezz’ora dalla città indossando il costume da bagno sotto le giacche imbottite. Il rituale russo prevede che appena arrivati in spiaggia ci si tuffi in acqua gridando di gioia.
Io non sono affatto convinta, ma Katia e Yelya insistono entusiaste cercando di persuadermi a buttarmi in acqua. “No, non voglio farmi il bagno” dico risoluta guardando i nuvoloni neri che si aggirano minacciosi sul mare, mentre in costume tremo di freddo. Mi faccio pregare un po’, ma alla fine cedo. Allora le vedo correre tutte contente verso l’acqua, insieme ad altri russi altrettanto felici e, con mio grande sconcerto, si tuffano festanti nel mare freddo. La sensazione dell’acqua gelida è terribile e mi dà da pensare tutto il giorno a una probabile polmonite. Le mie amiche sono invece a proprio agio e nuotano nell’oceano come se niente fosse. Finiamo la giornata mangiando pirojki, kolbasa e un cioccolato caramellato che appiccicoso sedute su un tappeto rosso con disegni di alci stilizzati e tripudi floreali.

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All’indomani della gita al mare devo partire nuovamente. Con la speranza di scampare alla polmonite mi reco con i miei bagagli alla stazione di Vladivostok sotto lo sguardo severo della statua di Lenin che con il braccio teso sembra proprio puntare la ferrovia. È buio, il mio treno per l’occidente parte a mezzanotte e io mi siedo assonnata nella luminosa sala di aspetto. Quando alzo lo sguardo per fissare il soffitto, mi accorgo che è decorato con pitture che presentano il punto di partenza e quello di arrivo della Transiberiana. Da una parte Mosca con la cattedrale di San Basilio, la Piazza Rossa e la chiesa di Cristo Salvatore, dall’altra Vladivostok con la sua elegante stazione ferroviaria e un vascello a vele spiegate.

È arrivato il momento di tornare indietro e mi aspettano ben sei giorni di viaggio in platzkart.

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