“Mai avere paura”…di rialzarsi

È uscito a gennaio e dopo un solo mese era già alla terza edizione. Il libro di Danilo Pagliaro, legionario ancora in servizio, è stato un caso editoriale. Anche perché racconta di una realtà, quella della Legione Straniera francese, pressoché sconosciuta in Italia.

Prima di leggere “Mai avere paura” non sapevo nulla della Legione Straniera. In realtà, non mi ero neanche mai chiesta cosa fosse fino a quando mio fratello non mi ha messo in mano questo libro.

Per saperne di più decido di recarmi sul posto e di conoscere l’autore. Incontro Danilo ad Aubagne, in Provenza, in una giornata ventosa e fredda.

L’appuntamento è a Le Florentine, un ristorante che dà sulla graziosa piazza della cittadina. Appena entro, scopro che non siamo soli: Danilo è attorniato da amici e ammiratori. Tra questi c’è Riccardo, appassionato della Legione Straniera, ma troppo in là con l’età per arruolarsi (il limite massimo è 40 anni non compiuti). Poi c’è Silvio, francese di origine, ma friulano di adozione, con un antenato nella Légion Etrangère, come la chiamano qua. Infine, seduta al tavolo, c’è anche una famiglia del Trentino che, incuriosita dal libro, è venuta fino in Francia in occasione della commemorazione della Battaglia di Camerone.

Nonostante tutto però, Danilo è una persona alla mano e modesta: non ama appuntarsi al petto le medaglie al valore conferitegli e, quando parla di sé, dice di essere “solo un piccolo brigadier-chef”. Non si dà arie, se non per scherzare; sì, perché Danilo, a dispetto dell’immagine che si può avere di un legionario, è un tipo scherzoso e dalla battuta pronta.

Copertina libroDopo ventitré anni di servizio nella Legione Straniera e a pochi mesi dalla pensione, Danilo ha deciso di scrivere “Mai avere paura. Vita di un legionario non pentito” (edito da Chiare Lettere), un testo che, oltre ad essere una sorta di autobiografia ai minimi termini, contiene anche informazioni pratiche sull’arruolamento e un’appendice con l’elenco dei reggimenti e delle tradizioni della Legione.

“Questo libro è nato per smentire le decine di messaggi che ricevo su ‘Militari Forum’, il più grande forum militare italiano non ufficiale, dove ho scoperto che si dicevano stupidaggini immense sulla Legione Straniera. Parlano di noi come dei killer assetati di sangue che per soldi torturano e uccidono. Ma figurati! Tutte cavolate: la Legione non è mai stata questa roba qua!” mi spiega, insofferente alle leggende che circolano a riguardo “È ovvio che quando si va all’assalto si uccide, ma alla stessa maniera dell’esercito francese, di quello italiano, di qualsiasi esercito. Inoltre scrivere ‘Mai avere paura’ è stato anche un pretesto per parlare, attraverso la mia storia, della società di oggi.

In particolar modo è all’Italia, al suo paese, che Danilo rivolge dure critiche, “una nazione unita solo quando la nazionale di calcio vince. Allora tutti lì a sventolare le bandierine! E non mi interessa se ci sarà della gente che mi considererà antipatico per quello che dico: la realtà è questa!” racconta Danilo, che di peli sulla lingua non ne ha “Io non sto esponendo le mie idee. Non sto dicendo: ‘gli italiani sono buoni o cattivi’. Quello che dico è solo la verità vista dall’esterno, da uno che non vive più in Italia da tanto”.

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Inevitabilmente si finisce a parlare della decadenza della società civile (e delle forze armate, che “sono lo specchio della società”), affetta da quella che Danilo nel suo libro chiama “ubriacatura di buonismo”, un’attitudine che porta al lassismo in ogni settore. E ci tiene a precisare che uno dei problemi principali è che “tutti parlano di diritti, ma nessuno pensa ai doveri”. Una società dove ogni cosa deve essere rigorosamente politically correct e “che ha semplicemente perso l’istinto di sopravvivenza. Quando il tuo unico interesse è divertirti, mangiare, spendere e bere, è allora che inizia il declino”.

Venendo in Francia per conoscere Danilo e parlare del suo libro, ne ho approfittato per assistere alla cerimonia della Battaglia di Camerone, rito che si tiene ogni 30 aprile nelle caserme della Legione Straniera in ricordo di uno degli scontri più incredibili della storia militare mondiale. Tenutasi nel 1863 a Camaròn, in Messico, vide come protagonisti un manipolo di sessanta legionari che riuscì a tenere testa a circa duemila patrioti messicani e a portare a termine la missione assegnata.

Alla parata di quest’anno, nella caserma di Carnoux en Provence è stato necessario far partecipare alcuni legionari della tredicesima Demi-brigade (che è normalmente di stanza negli Emirati Arabi Uniti, ma è ora in fase di trasferimento in Francia) per riempire le file della parata. “È un periodo molto particolare: abbiamo uomini impegnati altrove” spiega Danilo che ci fa da guida all’interno del Museo della Legione Straniera di Aubagne. Qua sono conservate alcune reliquie storiche quanto simboliche; tra queste la mano di legno del capitano Jean Danjou, uno dei legionari di Camerone, e l’ombrello rosso del tenente colonnello Rollet, tenuto sempre in alto, durante le battaglie, come punto di riferimento per i soldati che andavano all’assalto con lui.

Al termine della cerimonia andiamo a mangiare, tutti insieme, amici, ammiratori e giornalisti, a Cassis dove Danilo trova un po’ di tempo per rispondere alle domande che intendo rivolgergli riguardo la Legione e “Mai avere paura”.

Nella prima parte del libro, quella della tua gioventù, presenti un Danilo irrequieto in cerca del suo posto nel mondo. Ti descrivi come un ragazzo che vuol “fare qualcosa di utile per gli altri”. Mosso da questi valori, tenti di arruolarti in Polizia e, con lo scoppio della Guerra del Golfo, provi a offrirti volontario in Marina per partire alla volta del Medio Oriente. Questa volontà di fare qualcosa di utile, sei infine riuscito a soddisfarla nella Legione?

Assolutamente sì, perché qui c’è un gruppo incredibile di gente professionale che va tutta nello stessa direzione. La chiamiamo “famiglia”, ed è proprio così. Noi non “andiamo a fare la guerra”, come pensano alcuni, ma interveniamo quando c’è la vera crisi. Io non ricordo di aver torturato, ma ricordo di aver fatto un’operazione dove abbiamo salvato 2200 persone che altrimenti sarebbero state uccise a colpi di machete. Questo sì, me lo ricordo. O di operazioni in cui abbiamo messo in salvo delle suore che piangevano perché non pensavano che avrebbero visto il giorno dopo. Questo me lo ricordo. In quelle occasioni ti trovi occhi negli occhi con la gente che hai tirato fuori dall’inferno: li metti nel veicolo blindato, poi tu riparti per l’inferno, ma loro oramai sono salvi, ne stanno fuori. È favoloso e ti fa sentire realizzato. Questo ti ripaga, non lo stipendio.

Aqim (Al Qaeda nel Magreb) in Algeria, Mali, Senegal e Costa d’Avorio. Boko Haram in Nigeria, Camerun e Ciad. Al Shabab nel Corno d’Africa. E poi Oqba bin Nafa in Tunisia, l’Isis in Libia, dove ha ormai messo radici, e lo Stato Islamico del Sinai in Egitto. La morsa jihadista in Africa sta spostando l’attenzione sul “continente nero”. Al momento la Francia è impegnata nel Sahel con l’operazione Barkhane. Secondo te, che hai lavorato a lungo in Africa, la situazione è davvero peggiorata come sembra, o sono solo cambiati i protagonisti dei conflitti?

L’Africa è in una situazione tale che non può peggiorare. Prima si uccideva per un motivo, oggi per un altro. Sono solo cambiate le ragioni, ma di fondo c’è un problema più complesso che riguarda non solo la situazione economica, ma anche la mentalità e la cultura di quei paesi.

Quello dei reduci e degli invalidi è un tema attuale negli Stati Uniti dove i soldati, tornati dai conflitti di Afghanistan e Iraq, non hanno trovato ad accoglierli un programma articolato di recupero. Anzi, spesso l’unica cosa che hanno trovato è stata l’indifferenza dell’opinione pubblica. Il 44% dei veterani degli ultimi dieci anni ha difficoltà ad inserirsi nella vita civile e a cercare lavoro. Un certo numero di uomini che hanno preso parte a queste guerre tornano con problemi psicologici che si aggravano perché non vengono seguiti: disturbi postraumatici da stress che danno luogo a suicidi (secondo il Dipartimento degli Affari dei Veterani una media di 18 al giorno) ed episodi di violenza che coinvolgono i civili. Perché, secondo te, questi ragazzi tornano in patria con traumi? C’è forse una falla nei metodi di selezione, nei test psicoattitudinali o nel programma di addestramento che non prepara i soldati alla pressione psicologica della guerra?

No. In realtà abbiamo gli stessi problemi in Legione. Con la differenza che noi siamo 7500, quindi se abbiamo un 10% di gente che ha problemi, l’ammontare arriva a 700 persone circa. In America, hanno un esercito di 300.000 soldati e questo vuol dire che se la loro percentuale di militari con traumi psicologici è al 10, il numero di individui affetti da stress è 30.000. Ecco perché si sa che gli americani hanno di questi problemi mentre si pensa che noi ne siamo esenti. È solo una questione di numeri. Insomma, dovete che capire che anche noi siamo umani e abbiamo paura come tutti! Semplicemente siamo numericamente inferiori. Inoltre rappresentiamo la Francia, che in realtà non partecipa a tutte le guerre del mondo: nonostante quello che si dice, rispetto agli americani noi siamo meno a contatto con determinate situazioni.

In Francia ci sono due case di accoglienza per chi ha servito in Legione. “La Legione è una famiglia” è uno dei vostri motti. Quindi anche chi ha prestato servizio rimane in qualche modo inquadrato in un contesto partecipativo, non viene dimenticato né lasciato a se stesso.

Esattamente. Noi non giuriamo sulla Repubblica: non siamo francesi. Noi giuriamo su dei princìpi. Uno dei sette punti del nostro codice d’onore recita: “Non abbandonerai mai né i tuoi morti, né i tuoi feriti né le tue armi”. Quando una persona esce perché va in pensione o ha dei problemi, c’è una forma di aiuto e di assistenza. In Legione abbiamo il BALE, (Bureau des anciens de la Légion Etrangère) al quale i legionari possono rivolgersi se hanno un qualsiasi tipo di problema.

Qual è la cosa più importante che hai imparato in Legione?

Il più grande insegnamento è stato: mai avere paura. Ma non nel senso idiota degli esaltati, che vogliono andare al fronte a fare “Rambo”. In guerra si ha paura, eccome! Quello che intendo io è: mai avere paura di rialzarti, di ricominciare. Se ricado mi rialzo, se mi rompo una gamba me la medico. Ma si va avanti. Non bisogna avere paura di crederci, di vivere, di continuare a camminare. Questo me lo ha insegnato la Legione. Mi ha fatto toccare con mano che si può vivere così. È questo il “mai avere paura” con il quale ho voluto intitolare il libro.

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