A Bucarest tra le chiese condannate

La strana storia delle chiese spostate di Bucarest e del salvatore che le fece slittare su binari per salvarle dai bulldozer.

Sistematizzazione.

Questa era la parola d’ordine nella Romania di Ceausescu, il famoso dittatore romeno. “Sistematizzazione” era il nome del nuovo programma voluto dal Partito a partire dagli anni Ottanta, un esperimento di ingegneria sociale volto a cambiare il volto della nazione.

Ceausescu voleva portare avanti a grandi passi l’industrializzazione del paese, radicalmente agricolo, e ottimizzare la produzione in tutti i settori. In questo progetto i remoti paesini rurali con i loro ritmi ottocenteschi, i carretti trainati dai buoi e contadini che mietevano il fieno con le falci erano elementi di arretratezza da eliminare.

I villaggi dovevano essere distrutti, gran parte della popolazione trasferita nelle città, stipata in appartamentini dei nuovi alti condomini a lavorare e la campagna meccanizzata. Questo tentativo (fortunatamente) non riuscì ad attecchire con grande successo nei villaggi.

A Bucarest  invece la sistematizzazione fece danni. Elegante e piena di antichi monasteri, con tutti quei palazzi bella epoque e quel classicismo, la capitale romena non aveva il volto di una città che splendeva della grandiosità socialista. Nel progetto di Ceausescu poi, le chiese non avevano posto. Anzi erano d’intralcio. Dopotutto i comunisti, si sa, non furono mai dei grandi estimatori della religione e dei suoi simboli.

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Chiesa Olari

Sistematizzazione significava anche centralizzazione: gli strumenti di potere dovevano essere concentrati in una sola zona. E questa zona doveva essere sicura dal punto di vista sismico, dati i danni che il terremoto del 1977 aveva causato alla città. Guarda caso la parte più sicura di Bucarest corrispondeva con i quartieri Uranus, Antim e Rahova, ovvero il centro storico disseminato di complessi monasteriali e chiese vecchie anche 300 anni.

Il V rione, fu la zona maggiormente interessata dalle demolizioni: ruspe e bulldozer la rasero al suolo per far posto al mastodontico Palazzo del Parlamento, oggi il secondo edificio più grande al mondo. 40000 residenti furono evacuati e trasferiti nei nuovi palazzoni appositamente costruiti.

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Monastero Antim

La nuova Bucarest delineata dalla mente del dittatore megalomane era dominata dal quartier generale del Partito, grandi boulevard e condomini per lavoratori. Così lo stupendo centro storico di Bucarest fu distrutto per sempre a colpi di sistematizzazione sotto gli occhi attoniti dei suoi abitanti. Nessuna protesta dal parte del clero ortodosso e un iniziale grande silenzio internazionale (del resto l’attento lavoro di diplomazia estera e la condanna all’occupazione russa della Cecoslovacchia nel 1968 garantirono a Ceausescu un certo appoggio delle sinistre europee) furono i complici del deturpamento della “Parigi dell’Est”.

A dirla tutta ci fu chi intentò azioni, proteste, campagne di sensibilizzazione. Tra il 1984-85 alcuni architetti e intellettuali romeni firmarono lettere in cui supplicavano di porre fine alla “cieca mutilazione della nostra città”. Alcuni giornali del Nord Europa iniziarono a parlare della sistematizzazione e, tra le iniziative, nacque l’Operation Villages Roumanis con lo slogan “Adotta un villaggio romeno”. Ma a Bucarest nel frattempo le ruspe svolgevano imperterrite il proprio lavoro radendo al suolo secoli di splendori architettonici.

La buona notizia però è che questa storia ha il suo eroe. Alcuni lo hanno ribattezzato il “Salvatore della chiese di Bucarest”, ma il suo vero nome è Gheorghe Iordanescu. All’epoca ingegnere coinvolto nei lavori di ridefinizione della capitale romena, Iordanescu ebbe un’intuizione geniale per evitare che alcune storiche chiese fossero abbattute. Grazie al suo ingegnoso sistema riuscì a portarne in salvo 13. E le “portò” letteralmente in salvo perché effettivamente le tras-portò facendole slittare su rotaie.

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L’idea gli venne osservando un cameriere che portava un vassoio con dei bicchieri. Il vassoio permetteva ai camerieri di trasferire tutti insieme degli oggetti senza farli cadere. Se valeva per i bicchieri, pensò Iordanescu, doveva funzionare anche con gli edifici. Così pensò di applicare il “sistema vassoio” anche alle chiese.

Fece scavare il terreno sotto le costruzioni da spostare e vi creò un sostegno di cemento armato che veniva  poi posizionato su binari. Lo slittamento delle chiese sulle rotaie fu un processo delicato e lentissimo: ci volevano in media 25 ore per farle scivolare di una sessantina di metri.

Poiché si trattava di un metodo lento, la squadra di Iordanescu non riuscì a salvare tutte le chiese che avevano il permesso di venir spostate. 22 vennero comunque demolite perché Ceausescu era molto impaziente e cambiava ogni giorno idea sui progetti. Tra queste non ce la fece la Biserica Enei originariamente situata tra due antichi palazzi. Il terremoto del 1977 li fece crollare risparmiando però la chiesetta. Ceausescu, visibilmente deluso che il sisma non avesse fatto fuori la chiesa, decise di farla demolire lui con il pretesto di “edificio pericolante”.

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I portoni delle chiese romene sono in legno intarsiato

Scoperta per caso questa bizzarra storia delle chiese spostate di Bucarest, una volta giunta nella capitale mi sono messa alla ricerca, con documenti, articoli e mappe alla mano, di queste chiesette sopravvissute alle follie architettoniche del dittatore romeno. Vagando tra viuzze che sembravano condurre a nulla, curiosando dietro muraglie di condomini, ne ho trovate alcune. Piacevoli sorprese in un oceano di palazzoni anonimi.

1) La prima a venir traslata fu Schitul Maicilor. Risalente al 1726, di questo complesso monasteriale non rimane oggi che la chiesa, spostata a 245 metri dalla posizione originaria nel 1982.

2) Una delle più famose tra le chiese spostate è Mihai Voda. Costruita per volere di Mihai il Bravo, custodisce l’icona miracolosa di San Nicola che ascoltò le preghiere di Mihai condannato a morte da Alessandro il Cattivo. Dopo esser stato miracolato, Mihai promise che avrebbe edificato un monastero dedicato a San Nicola, il suo protettore. La chiesa ebbe una storia tormentata, patì incendi, inondazioni e devastazioni varie, ma nel 1985 traslata di 289 metri sopravvisse anche alla sistematizzazione di Ceausescu.

3) Il Monastero Antim è il più bello tra quelli spostati e fu il più pesante. Oggi si trova a 28 metri rispetto la sua iniziale locazione e nel 1985 per spostare le sue 9000 tonnellate di soli 10 metri ci vollero ben 6 ore.

4) Chiesa Olari costruita nel 1758, questo gioiellino con il tetto in legno deve il suo nome alla parola “oale”, argilla, poiché fu edificata su un terreno dove gli abitanti usavano raccogliere terra per fabbricare pentole di coccio. Questa chiesetta fu spostata ben due volte, nel settembre e nel dicembre 1983.

5) Chiesa Sfantul Stefan – Cuibul cu barza. Nel 1988 le bastarono solo 12 metri in direzione sud per essere salvata dalla nuova strada Stirbei Voda che secondo i piani di Ceausescu avrebbe collegato la Casa del Popolo all’Accademia militare: un ampio boulevard destinato alle parate militari. Il dittatore accettò di fare spostare la chiesa solo a patto che fosse ben nascosta dall’arteria che stava spianando. Detto fatto: gli architetti la celarono dietro alti condomini che oggi sembrano incombere su di lei. Infatti, inghiottita com’è dal cortile di asfalto di questi palazzoni minacciosi, Biserica Sfantul Stefan è stata per me la più difficile da scovare. Questa minuscola chiesetta, che fu l’ultima ad essere spostata, ha un piccolo giardino decorato con sculture di cicogne, il suo nome non a caso significa “nido con cicogna”. Sembrerebbe che anticamente delle cicogne usassero fare il proprio nido sul tetto di questa chiesa.

A trent’anni di distanza, dopo che le chiese di Bucarest sono state nascoste, spostate, demolite, piante e deturpate, il Patriarcato della Chiesa Romena sta portando a termine un nuovo grandioso progetto. A poche centinaia di metri dal Palazzo del Parlamento, che siede sopra le macerie sepolte del centro storico di Bucarest, si scorge un cantiere. Su una piana sterrata lungo Calea 13 Septembrie, tra un via vai di camion carichi di materiali, ingegneri che si consultano e operai che si affaccendano, si innalza un imponente scheletro di mattoni e cemento. Si tratta della futura Catedrala Neamului (la Cattedrale del Popolo) che quando sarà terminata misurerà 90 metri di altezza, ben 6 in più della vicina Casa Poporului.

Sei metri che fanno la differenza e che hanno tutto il sapore di rivincita della Chiesa Romena sul comunismo.

Transiberiana, consigli e info utili per organizzarla

Tutte le dritte e le informazioni per preparare un viaggio fai-da-te sulla mitica ferrovia russa.

Ogni persona che aveva saputo di questo mio viaggio su strada ferrata in Russia mi chiedeva stupita come avessi fatto a compiere una simile traversata da sola. In che modo mi ero preparata, quanto costa, quanto tempo è necessario, come funziona il sistema ferroviario russo…Insomma ai loro occhi era un po’ come se fossi arrivata al polo sud in solitaria: “Transiberiana” è una parola che richiama alla mente un viaggio epico e complicato. Ebbene, il viaggio è sì epico, ma in realtà non è poi così complicato come sembra.

Quindi, anche se in questo blog in genere racconto delle mie esperienze di viaggio piuttosto che di consigli di viaggio, ho pensato di scrivere un articolo per aiutare le persone ad affrontare la programmazione della Transiberiana. Tutto sommato anche io prima di intraprendere questa avventura mi sono trovata a fare i conti con domande, dubbi e anche paure, per cui se posso esservi d’aiuto e darvi qualche consiglio ne sono ben lieta!

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TRANSIBERIANA, TRANSMONGOLICA, TRANSMANCIURIANA

La Transiberiana non è un treno, ma un percorso ferroviario che attraversa la Siberia meridionale e quello che in Russia chiamano il Far East, ovvero l’ultimo lembo orientale di questa sconfinata area.

A volte si usa genericamente il termine “Transiberiana” per indicare anche la Transmongolica e la Transmanciuriana; in fin dei conti non è poi così errato dal momento che entrambe le ferrovie si possono definire diramazioni della Transiberiana russa.

La Transiberiana è il tratto che va da Mosca a Vladivostok passando lungo i confini russi meridionali. Ciò vuol dire che il treno attraversa solo la parte sud della Siberia.

La Transmongolica invece collega Irkutsk (città russa sul lago Bajkal) a Ulaan Bator (la capitale mongola) e prosegue fino a Pechino attraversando trasversalmente la Mongolia e un breve tratto della Cina del Nord.

I treni della Transmanciuriana infine si diramano da Chita, città russa della Siberia Orientale, entrano in Manciuria (una delle province cinesi) e passando per Harbin arrivano fino a Shenyang.

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IL TEMPO

Se si desidera fare un viaggio simile non si può prescindere dal tempo. La Russia è immensa e i treni che viaggiano lungo la ferrovia non sono poi così veloci. L’intero tratto da Mosca a Vladivostok senza scendere a visitare le varie città lungo il tragitto richiede una settimana di viaggio. Quindi, a meno che non siate in anno sabbatico, pensione, o stiate facendo il giro del mondo, nel programmare un viaggio di questo tipo tenete sempre presente il tempo di cui disponete. Nel farlo pensate alle località volete visitare e quanti giorni potete rimanervi. Dopodiché dovete capire quanto tempo il treno impiega a percorrere le distanze tra le città che avete scelto. Per farvi un’idea, ma anche per acquistare i biglietti online, andate sul sito delle Ferrovie russe: www.rzd.ru. Sulla home page, in alto sulla destra troverete la dicitura “EGN.RZD.RU”, cliccateci e vi rimanderà al sito in inglese. Cliccate su “passengers” e digitate la stazione di partenza, di arrivo e la data e iniziate la vostra ricerca. Tenete sempre presente che gli orari indicati sono quelli di Mosca. Tutto il sistema ferroviario russo è allineato al fuso orario della capitale. Per fare un esempio, se sul biglietto c’è scritto che il treno parte da Vladivostok (città che sta a +7 ore rispetto a Mosca) alle 8 vuol dire che partirete quando nella capitale sono le 8, ma a Vladivostok le lancette segnano le 15:00.

Il mio caso è un po’ particolare: io disponevo di molto tempo e questo viaggio lo tenevo custodito “nel cassetto” da anni, quindi ci ho messo un bel po’. Ho visitato molte località lungo la ferrovia e ho evitato di fare una “toccata e fuga” nelle varie tappe. Inoltre per tornare non ho preso un aereo, ma ho ripercorso la Transiberiana anche al ritorno visitando altre città nel tornare indietro. Per questo, il mio viaggio è durato circa due mesi, ma nonostante ciò ho visto solo una piccola parte di questo sterminato paese.

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Uno stachan (bicchiere) delle ferrovie russe

QUANDO

Se proprio volete vedere la Siberia ammantata di neve e siete disposti a sopportare temperature glaciali al di sotto dello zero (il che potrebbe anche essere), per voi va bene anche l’inverno. Se invece non volete ibernarvi, beh i momenti migliori sono la primavera e l’estate. E fino a qua mi pare abbastanza ovvio e ci arrivavate anche da soli, suppongo; io però vorrei darvi un altro consiglio: optate per la primavera, in particolare nei mesi di maggio e giugno, piuttosto che in piena estate. Questo per due motivi. Il primo è che a dispetto del nome, la Siberia non è affatto sempre fresca: il clima continentale le regala inverni rigidissimi quanto estati caldissime e terribilmente umide, con temperature che oscillano tra i 30 e i 34°C. Il secondo motivo è che in luglio e agosto la ferrovia è frequentata da moltissimi russi che utilizzano il treno per spostarsi da una parte all’altra del paese poiché i voli interni sono piuttosto cari, specialmente se comparati alla platzkart (la terza classe) dei treni. Se non scegliete la primavera potreste quindi avere problemi a trovare facilmente posto. A me, ad esempio, è capitato di rimanere bloccata per sei giorni a Vladivostok.

VISTO

Diciamoci la verità: il visto russo è una grande seccatura! Ed è l’unica parte complicata dell’intero viaggio. Non che sia difficile da ottenere, ma richiede vari passaggi e accortezze. Tra le altre cose bisogna presentare una lettera di invito. Detta così sembra una missione impossibile, ma niente paura, è in realtà una formalità che può essere sbrigata dall’albergo o l’ostello in cui alloggerete. Chiedetelo espressamente al momento della prenotazione e lo faranno con una piccola commissione, generalmente sui 10 euro.

La fototessera deve essere recente e soprattutto con il viso ben visibile e scoperto. È un consiglio da non sottovalutare: ad alcune persone è stato richiesto di rifare la foto…ma tanto il personale di confine non sarà mai veramente convinto che quelli nella foto sarete voi e vi guarderanno sempre con aria interrogativa.

L’assicurazione sanitaria è obbligatoria, ma non potete scegliere qualsiasi compagnia assicuratrice: l’Ambasciata di Russia ne accetta solo alcune (la lista è sul sito alla sezione dei visti). Seguite nel dettaglio tutto ciò di cui l’agenzia di assicurazioni deve scrivere sulla vostra polizza (anche per questo troverete le informazioni necessarie nel sito apposito). 

Quando avrete tutte le scartoffie dovrete prendere un appuntamento all’ambasciata per presentare tutta la burocrazia richiesta.

img_3850pMa io non vi spiegherò come ottenere il visto, per farlo basta seguire le indicazioni del sito dell’Ambasciata russa nel quale troverete tutti i dettagli o, se preferite, mettete tutto in mano ad un’agenzia che si occupa di visti. Ciò su cui vorrei farvi riflettere è:

1) Il normale visto turistico vi permette di rimanere per un massimo di 30 giorni con una singola entrata.

2) La Russia non è un paese, bensì un continente. È semplicemente immensa e voi volete visitarla in treno.

Questo vuol dire che dovete organizzare la vostra Transiberiana tenendo da conto il punto 1 e il punto 2. La domanda da farsi è dunque: mi bastano 30 giorni? E, se dovete farveli bastare, allora bisognerà che torniate in aereo (cosa che in realtà tutti fanno, solo io, a quanto pare, sono l’essere bizzarro che ha percorso in treno sia l’andata sia il ritorno). Inoltre se volete arrivare fino allo splendido e affascinante Far East, il numero delle tappe in cui potrete fermarvi con un normale visto di 30 giorni è inversamente proporzionale alle distanze che dovrete percorrere. Quindi la possibilità di vedere molte località si assottiglia.

I BIGLIETTI

La Transiberiana non è un Inter Rail, quindi non si acquista nessun pass. Funziona come una normalissima ferrovia: si sceglie la tratta, il giorno, l’orario, la classe e si compra quello specifico biglietto.

I biglietti si possono acquistare alle stazioni ferroviarie dalle macchinette automatiche, che dispongono anche di schermate in inglese e generalmente di un addetto che vi potrà aiutare nell’acquisto, o agli sportelli.

Una comoda opzione, specialmente se volete assicurarvi i primi biglietti del vostro viaggio è quella online sul sito delle ferrovie russe www.rzd.ru. Se scegliete quest’ultimo metodo tenete presente che per comprare dovrete registrarvi al sito e che i biglietti sono acquistabili solo 2 mesi prima della partenza. Io personalmente non ho avuto nessun problema ad accaparrarmi i biglietti online dall’Italia, ma una volta in Russia il sito non accettava il pagamento elettronico. Da quello che ho capito è un problema che ho avuto solo io, legato alla mia carta di credito, ma a me è successo, motivo per cui la maggior parte delle volte ho dovuto comprare i biglietti alle stazioni, dove la quasi totalità degli impiegati parla solo russo.

Ricordate sempre, come dicevo qualche riga più su che tutti gli orari di partenza e arrivo dei treni sono allineati al fuso orario di Mosca.

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LE CLASSI E LA VITA SUL TRENO

Sulla Transiberiana esistono la seconda classe, detta kupe, e la terza classe, la mitica platzkart. In realtà per brevi percorsi o traversate di una sola notte è possibile acquistare anche posti a sedere in normali vagoni.

I kupe sono divisi in scompartimenti per quattro persone, mentre in platzkart non c’è alcun tipo di divisorio, si tratta di un unico “vagone-dormitorio”.

In ogni vagone ci sono due provodnitse che si alternano nei turni diurni e notturni. La provoditsa (se si tratta di uomo, evento più raro, il provodnik) è una figura a metà strada tra il controllore e l’addetto alle pulizie. In poche parole si tratta di un supervisore, una sorta di capo vagone. Tra le loro mansioni rientrano: controllare i biglietti, dare ad ogni passeggero asciugamani e lenzuola pulite, vendere cibo, pulire vagoni (bagni compresi) e assicurarsi che il samovar funzioni sempre.

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Platzkart

Il samovar, o bollitore di acqua, è una salvata. Ce n’è uno in ogni vagone ed è molto usato per preparare caffè, tè e zuppe liofilizzate. La provodnitsa vi darà gratuitamente un bicchiere con il quale potrete farvi tè e caffè; lo stachan (che in russo significa “bicchiere”) delle ferrovie russe è molto carino e decorato, ma non ve lo potete portare via a meno che non lo compriate; quindi prima di scendere dovrete riconsegnarlo…la provodnitsa si segna tutto e non  le sfugge nulla! 

A proposito, per quanto riguarda il cibo, dimenticatevi di sfamarvi nel vagone ristorante. Nonostante il nome non è affatto attrezzato come tale. Lì potete trovare al massimo qualche bevanda e snack, ma non veri e propri pasti. Per quelli dovrete provvedere da voi. Fate la spesa prima di salire sul treno, procuratevi della frutta, magari preparatevi qualche panino e se il vostro viaggio richiede giorni, una buona idea sono le zuppe liofilizzate che si trovano facilmente in qualsiasi supermercato. Basterà riempire la ciotola con l’acqua bollente e aspettare qualche minuto. Sul treno le provodnitse passano di tanto in tanto con dei carrelletti, ma vendono solo patatine, barrette di cioccolata, bustine di tè o caffè e qualche pirojki (una sorta di frittella russa, molto buona). Scoprirete poi che il cibo non sarà mai un problema se viaggiate in platzkart poiché la gente vi offrirà spesso qualcosa da mangiare.

Oltre al samovar, ogni vagone dispone di aria condizionata e due display che segnano l’ora (quella di Mosca), la temperatura interna e se i bagni sono occupati.

Le prese della corrente sono poche non più di cinque e generalmente posizionate all’inizio o alla fine del vagone, vicino ai bagni. Questo vuol dire che caricare telefono, tablet o qualsiasi dispositivo elettronico può essere snervante quando si viaggia con altre cinquanta persone. Il consiglio è portarsi un caricatore portatile da usare quando le prese non sono libere.

Sulla porta dello scompartimento privato delle provodnitse è affisso un cartello con l’elenco dettagliato di tutte le fermate che il vostro treno percorrerà e i rispettivi orari di arrivo e partenza da ogni stazione. In questo modo potrete farvi un’idea di quanto tempo il treno stazionerà in un posto nel caso vogliate scendere a comprare qualcosa, fumare (all’interno del treno è proibito) o semplicemente sgranchirvi le gambe.

Sia la seconda sia la terza classe dispongono di letti che dovrete farvi da voi con le lenzuola, pulite e impacchettate, che la provodnitsa vi darà all’inizio del viaggio. Poco prima di arrivare alla vostra stazione dovrete riconsegnarle insieme agli asciugamani.

In ogni vagone ci sono due soli bagni. Se viaggiate in kupe dovrete utilizzare il bagno alternandovi con una trentina di persone, ma se siete in platzkart i vostri compagni di viaggio saranno più o meno cinquanta. Tenetelo ben in mente. Questo significa che la possibilità di trovare la toilette spesso occupata è una certezza, soprattutto la mattina quando i passeggeri vogliono darsi una sciacquata o fare i bisogni. I bagni sono molto spartani, ma sempre puliti e provvisti di carta igienica.

Ah, quasi dimenticavo: niente docce in nessuna classe. Quindi se lavarvi a pezzi per più di un giorno non è per voi, allora scegliete tratte non troppo lunghe.

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SICUREZZA E PRECAUZIONI

La Russia è un paese incredibilmente sicuro. Pur essendo una donna che viaggiava sola e in totale autonomia non solo non mi è mai capitato nulla, ma non mi sono neanche mai sentita in pericolo o minacciata. Detto questo, è sempre bene agire secondo il buon senso in qualsiasi parte del mondo si viaggi.

I treni russi sono molto sicuri dal momento che ogni vagone è costantemente vigilato e pulito dalle due provodnitse. Alle stazioni ferroviarie ci sono sempre poliziotti o soldati quindi non c’è pericolo di essere aggrediti o scippati. Tuttavia è ragionevole portare con sé gli oggetti di valore come il passaporto, il denaro, fotocamere e telefoni quando si scende dal treno per sgranchirsi le gambe o anche solo quando ci si allontana dal proprio posto. Per i bagagli grandi invece non c’è bisogno di preoccuparsi.

ITINERARI…la mia esperienza

Pressoché la totalità dei viaggiatori percorre Mosca-Irkutsk con una breve sosta a Ekaterinburg per poi finire in Mongolia o direttamente a Pechino. È un percorso molto gettonato. Io ero già stata in Cina anni addietro, quindi non ero granché interessata ad arrivare fino alla capitale cinese o ad andare in Manciuria. Ho però attraversato l’intera Transiberiana da Mosca (in realtà sono partita da San Pietroburgo) a Vladivostok e mi sono anche recata anche in Mongolia, (che vuol dire che sono entrata due volte in Russia, all’inizio del viaggio e una seconda volta dalla Mongolia. Per fare questo bisogna espressamente richiedere un visto a doppia entrata prima di partire).

La Siberia è affascinante, ma nessun tratto è meraviglioso come l’ultimo: lo stupefacente Far East. Lì (da Chita a Vladivostok) i paesaggi sono di una bellezza commovente. Il resto della Siberia invece potrebbe deludere alcuni poiché a parte qualche splendido bosco di betulle si tratta per lo più di piane acquitrinose. Quindi se potete, evitate di vedere tutti i paesi in una volta sola: la Cina e la Mongolia sono posti così interessanti e variegati che, secondo me, meritano un viaggio a parte. Se siete davvero interessati alla Russia o alla Siberia “limitatevi” alla Transiberiana. Quasi tutti invece troncano il viaggio a Irkutsk per dirigersi a sud perdendosi così i migliori paesaggi siberiani e alcune interessantissime città come Chita, Khabarovsk, Komsomolsk na Amure, Vladivostok.

COSTI

Tanti bei consigli, informazioni, racconti, ma di sicuro vi starete chiedendo: “Sì, vabbè, ma veniamo al dunque, quanto costa?”

Il viaggio in Transiberiana non è costoso. Però questo dipende anche da voi. Kupe o platzkart? La scelta fa la differenza. Sebbene la seconda classe non abbia nulla a che vedere con il lusso, la differenza di prezzo tra le due non è indifferente. Un posto in kupe costa in media più del doppio di uno in platzkart. Se scegliete di viaggiare in seconda classe potreste trovarvi a spendere un bel po’ dato che le tratte sono generalmente molto lunghe.

Per darvi un idea dei costi, io ho pagato 136 euro la tratta Vladivostok-Ekaterinburg (6 giorni di treno) in platzkart. Come vi ho detto, i prezzi dei biglietti sono abbordabili, ma lo stesso percorso in kupe mi sarebbe costato sui 400 euro. Per percorsi brevi (pensate alla russa, per “breve” intendo 10-12 ore di treno) potete risparmiare ulteriormente se acquistate un posto su normale sedile. Io l’ho fatto più di una volta e ad esempio San Pietroburgo-Mosca (700 chilometri, una notte di viaggio) mi è costata solo 10 euro. Neanche a dirlo, in questo caso dovrete dormire seduti, come in aereo.

Treni a parte, la Russia non è affatto costosa e se optate per ostelli piuttosto che veri e propri alberghi potrete risparmiare moltissimo dormendo con soli 5 euro a notte.

Per concludere, diciamo che la Transiberiana può essere un viaggio estremamente economico a patto che siate disposti ad adattarvi.

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CONSIGLI…ecco alcune piccolezze che potranno tornarvi molto utili in un viaggio simile.

Il primo consiglio suonerà abbastanza ovvio: portatevi qualche lettura e un po’ di musica per passare il tempo. Dal momento che vi aspettano molte ore, se non addirittura giorni interi, in uno scompartimento, avere qualche distrazione oltre al paesaggio sarà piacevole; specialmente se non avete la fortuna di padroneggiare la lingua del posto, abilità che vi permetterebbe di parlare con gli altri passeggeri visto che i russi sono dei gran chiacchieroni.

Portate con voi delle salviettine umidificate, sono una buona idea per l’igiene in un contesto in cui ci sono pochi bagni e nessuna doccia.

Anche un frasario russo può esservi d’aiuto poiché, eccezion fatta per San Pietroburgo e Mosca, in altre città l’inglese non è molto conosciuto. I russi sono persone gentilissime, ma la stragrande maggioranza di loro vi parlerà dall’inizio alla fine nella sola lingua che conosce: il russo, tra l’altro convinti che voi capiate tutto quello che vi dicono. Inoltre, personalmente cerco sempre di imparare qualche frase e delle parole nella lingua del posto in cui vado perché questo mi permette di entrare meglio in contatto con la realtà locale e alle persone fa molto piacere vedere che uno straniero si sforza di parlare la loro lingua.

Sembrerà una banalità però non posso non consigliarvi di dotarvi di una buona dose di spirito di adattamento e ironia. Non si tratta di un viaggio estremo, tuttavia passare lunghi periodi in un treno con degli sconosciuti e trovarsi in località in cui le infrastrutture turistiche non sono granché sviluppate, lo richiede. Si tratta di due qualità (ironia e adattamento) che si riveleranno preziose specialmente se avete un budget limitato, ma soprattutto se volete addentrarvi meglio nella realtà russa. Non fatevi spaventare dal concetto di terza classe: in platzkart potrete vivere al meglio la Russia, immergervi nella sua cultura ed entrare a contatto con il suo popolo.

Ma il miglior consiglio che posso darvi per un viaggio simile è: fatelo! La Transiberiana è una di quelle cose che, come si suol dire, ci vuole più a pensarla che farla…per me è stato più complicato far crescere un tappeto erboso nel mio giardino che sbolognarmi tutta la Russia in treno. 

Quindi, che aspettate? Pronti a partire?

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Stazione ferroviaria di Vladivostok

Una terra irrequieta dalla natura capricciosa

 

Ma non è tutto oro quel che luccica.

Le forze che risiedono nel sottosuolo non possono sempre essere controllate dalla mano dell’uomo e le calamità naturali che hanno devastato l’Islanda ne sono una chiara dimostrazione. I vulcani sono una fonte costante di fastidi e preoccupazione.

Nel 2009 l’eruzione dell’Eyjafjallajokull con le sue dense nubi di ceneri bloccò il traffico aereo di mezza Europa. Nel 1996 invece quando eruttò il Grimsvotn, uno dei vulcani dormienti che giace sotto lo spesso manto di ghiaccio del Vatnajokull (il ghiacciaio più grande d’Europa), provocò un’inondazione glaciale che devastò un’intera regione. Il magma fuoriuscendo creò una fenditura sotterranea al ghiacciaio e diede vita a un lago subglaciale. A un mese dall’eruzione il livello del lago si alzò e le sue acque si riversarono nella valle sottostante travolgendo la Hringvegur, la principale strada del paese. I 3000 miliardi di litri cubi d’acqua liberati in poche ore e i giganteschi iceberg che si staccavano dal Vatnajokull spazzarono via i ponti Skeidara e Gigjukvisl.

È una terra inquieta l’Islanda. Qua la natura è impetuosa e può cambiare i connotati di un paesaggio nel giro di pochi anni o addirittura nel corso di una notte, come accadde il 23 gennaio 1973 su Heimaey, nell’arcipelago delle Vestmannaeyjar. L’Eldfell, uno dei due coni vulcanici della piccola isola a sud dell’Islanda, spuntò durante un’inaspettata eruzione notturna. DSC_0714pLa fortuna volle che quel giorno i pescherecci fossero rimasti ormeggiati a causa del forte vento e poterono così trarre in salvo gli abitanti. La lava che si riversò sulla cittadina distrusse 360 case facendo del capoluogo dell’isola una Pompei del nord.

Una notte di dieci anni prima invece al largo di quello stesso arcipelago, emerse ribollendo l’isola di Surtsey, dichiarata poi patrimonio dell’Unesco nel 2008.

Anche lo Jokulsarlon, la laguna di iceberg nel sud est del paese, è relativamente recente. La sua formazione iniziò negli anni Trenta quando i primi lastroni di ghiaccio cominciarono a staccarsi dallo Breidamerkurjokull. Questo ghiacciaio che arrivava a lambire la Hringvegur, si ritirò poco a poco dando vita a questa laguna profonda 600 metri, con iceberg azzurri che galleggiano placidi in direzione del mare.

In Islanda insomma è la natura a dettare legge. E quasi sempre vince sull’uomo. Questo è tra l’altro il messaggio di “Gente indipendente”, uno dei romanzi di maggiore successo dello scrittore islandese Halldor Laxness, premio Nobel per la letteratura nel 1955. Tutta la vita del protagonista Bjartur, un rozzo e odioso pastore di fine Ottocento, è segnata dall’inutile lotta contro una natura troppo potente. Bjartur vuole vivere in autosufficienza nella sua fattoria sperduta nella campagna sferzata da venti implacabili, ma non ci riuscirà mai veramente: è un antieroe destinato a perdere la sua battaglia contro la natura islandese.

Guardando i paesaggi aspri di quest’isola dove le piccole chiese rurali sembrano solitarie case di campagna e i tumultuosi fiumi finiscono in roboanti cascate, penso che sia proprio così. Questa natura indomita, scandita dal continuo alternarsi di fuoco e ghiaccio, luce e buio, rappresenta in qualche modo l’essenza dell’isola.

Sì, perché l’Islanda al primo impatto è fredda ed i suoi inverni sono troppo bui da sopportare, ma dentro questo guscio duro plasmato dal gelo, batte in realtà un cuore irrequieto fatto di magma. Il cuore di una terra spesso dimenticata dalle mappe dell’Europa forse perché troppo giovane e lontana per il vecchio continente.

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Quando la terra sospira, il caldo fascino dell’energia geotermica

“C’era una volta, in un ventoso lembo di terra, una donna dall’aria minuta e dai lunghi capelli soffici. Si chiamava Gudrun, ma tutti la conoscevano come Gunna.

Ogni giorno, Vilhjamur Jonson, signore della fattoria Kirkjabol, la perseguitava intimandole di pagare i debiti che la poveretta aveva contratto con lui. Un giorno, Vilhjamur, uomo corpulento e arrogante, entrò con prepotenza nella misera casa di Gunna e le portò via l’unica cosa che la donna possedesse: un malridotto vaso, nero come la pece.

Da quel momento Gunna impazzì e dopo poche ore la sua follia la portò alla morte. Il giorno del suo funerale la bara divenne incredibilmente leggera come se fosse piena di fiori. Mentre gli uomini scavavano la fossa per Gunna il vento cominciò a ululare furente. Improvvisamente, una voce roca simile a quella di un demone rabbioso, fendette l’aria e raggelò il sangue dei becchini che, terrorizzati, lasciarono cadere le pale. “Non scavate una fossa profonda: non ho tempo di sdraiarmi!” gridò la voce di Gunna.

Il giorno seguente, gli abitanti delle fattorie vicine trovarono a Skagi il corpo senza vita di Vilhjamur in una posizione innaturale, con le ossa rotte. Presto, la furia di Gunna colpì anche la vedova del signore di Kirkjabol. Il fantasma cominciò ad aggirarsi inquieto per le brughiere uccidendo persone e bestie indifferentemente. Chiunque si avventurasse a Skagi impazziva.

Allora per mettere fine alla maledizione gli abitanti chiamarono un prete che diede loro una palla di filo e disse: “Fate in modo che lo spirito di Gunna ne afferri l’estremità. Una volta dipanato il filo, rimarrà prigioniera nel luogo stesso in cui lo ha afferrato”. Il fantasma della donna cadde nella trappola e fu inghiottito da una pozzanghera di fango bollente. Da quel momento uomini e donne chiamarono quel posto “Gunnuhver”: le solfatare di Gunna. Si dice che ancora oggi, se si tende l’orecchio, si possono sentire i sospiri della povera Gunna“.

Così narra la leggenda legata alle Gunnuhver, nel sud della penisola di Reykjanes. Gli echi di questa storia inquietante fanno da sfondo alle solfatare ai margini delle scogliere di Grindavik.

Per arrivarci, percorro una strada tortuosa di terra battuta che si snoda fino ad arrivare al faro bianco e rosso di Reykjanesviti. Il percorso termina poco pittorescamente in un grande spiazzo sterrato oltre il quale le onde blu si infrangono spumose sulle rocce. In lontananza si intravede l’isolotto di Eldey che emerge dall’acqua: uno sperone nero che ospita la più grande colonia di sule del mondo, ma è così lontano dalla costa, 14 chilometri, che non si intuisce nulla della starnazzante vivacità che lo popola.

Mi incammino lungo il breve sentiero che conduce a Gunnuhver e, ancor prima di arrivarci, vedo terra rossa e fumo. Quasi non ci sono turisti, le solfatare di Gunna non sono molto famose o comunque, posizionate lontane dalla statale 1 in un angolo semisconosciuto della poco visitata penisola di Reykjanes, non attirano un gran numero di visitatori. Meglio. Posso passeggiare pressoché indisturbata lungo le scricchiolanti passerelle di legno che si addentrano tra i fumi caldi.

L’atmosfera è quasi mistica e la terra sembra la tavolozza di un esperto astrattista: i colori passano come per osmosi da un rosso intenso a un giallo paglierino fino a sfumare al grigio profondo del fango che ribolle. L’aria calda esce impetuosa dal buio mondo sotterraneo della terra e viene spazzata via con impazienza dal vento freddo. Mi appoggio alla ringhiera di legno ad osservare il silenzioso impeto delle solfatare e mi pare di udire dei soffici suoni, come dei lunghi sospiri. Allora mi ricordo della leggenda. Forse è Gunna con il suo triste lamento che esce dalle viscere della terra. O forse è solo il vaporoso sospiro della terra.

Il miglior modo per fare esperienza dell’energia del sottosuolo islandese è alla Laguna Blu. Questo luogo, dal nome evocativo, è un lago creato dagli scarichi dell’impianto geotermico Svartsengi che rilascia un’acqua lattiginosa, caldissima e ricca di sostanze minerali che sembrerebbero un toccasana per i disturbi dermatologici. Già dalla strada si intravedono i densi fumi bianchi della struttura che si stagliano contro il cielo grigio e, una volta arrivati nel centro termale, ci viene consegnato un braccialetto elettronico in gomma resistente all’acqua, con il quale il visitatore “paga” ulteriori servizi. Ogni acquisto viene registrato sul braccialetto e all’uscita si salda il conto. La temperatura esterna è terribilmente bassa, mentre nell’acqua turchese, che sta a 38 gradi, si sta meravigliosamente.

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La geotermia è un fattore fondamentale per l’Islanda: il 90% degli edifici viene riscaldato utilizzando questa energia rinnovabile a basso costo. Per capire come funziona una centrale geotermica mi reco al moderno impianto di Hellisheidi, nei pressi di Hveragerdi pochi chilometri a sud ovest della capitale. Questa struttura del 2006 infatti, funge anche da museo per chi vuole saperne di più sulla produzione di energia in Islanda.

Gli schermi e le illustrazioni spiegano il procedimento dall’estrazione del calore alla distribuzione dell’energia e alla conservazione dell’acqua calda negli enormi serbatoi del Perlan, sulla collina di Oskjuhlid. Tutto inizia nei profondi pozzi da cui le pompe attingono l’acqua che si trova a temperatura di ebollizione. Acqua calda e vapore vengono separati, dopodiché il vapore viene canalizzato in turbine che serviranno per la produzione di energia elettrica, mentre l’acqua calda è utilizzata per scaldare quella fredda proveniente dai ghiacciai. Infine, raggiunti gli 85°C, l’acqua viene fatta passare nei tubi di distribuzione, studiati per disperdere meno calore possibile (non più di un grado), che la porteranno nelle case islandesi.

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La base Nato, una gallina dalle uova d’oro

L’Islanda non ha significativi monumenti storici, chi viene qua in vacanza lo fa per ammirare la splendida natura dell’isola.

Ma c’è una costruzione che è stata fondamentale nella storia degli ultimi cinquant’anni del XX secolo di questo paese: la base Nato di Keflavik. In qualche modo questo edificio è un importante monumento storico. Infatti la prolungata presenza statunitense nella penisola di Reykjanes influenzò notevolmente la vita economica, politica e sociale di questa nazione geograficamente così isolata dal resto del mondo.

Tutto iniziò nel 1951 quando, con lo scoppio della guerra contro la Corea, la Nato chiese all’Islanda di accettare sul proprio suolo l’esercito Usa in funzione difensiva. Non era la prima volta che il paese accettava la presenza di un’armata straniera. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’assenza di un esercito islandese che potesse difendere l’isola da un’eventuale occupazione tedesca, spinse la Gran Bretagna ad inviare le proprie truppe in Islanda. L’anno successivo le truppe inglesi si ritirarono e furono sostituite da quelle statunitensi con l’intento iniziale di rimanere fino al termine del conflitto.

Cinque anni dopo gli americani mantennero la promessa e si ritirarono. Ma la guerra in Corea e il crescendo di tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica rimescolarono le carte in tavola e l’esercito americano tornò sull’isola di ghiaccio. L’Islanda, situata in una posizione strategica a metà strada tra il continente euroasiatico e quello americano, divenne così un’importante base di monitoraggio durante la guerra fredda.

La presenza statunitense ebbe degli effetti significativi innanzitutto sul piano politico. L’Islanda godette della protezione americana che le evitò spiacevoli confronti con le altre grandi potenze. Un esempio tra tutti furono gli eventi incruenti delle cod wars, “le guerre del merluzzo”, le uniche guerre che l’Islanda si sia mai trovata a “combattere”. Il nome suona ridicolo, ma questo pacifico litigio tra Islanda e Gran Bretagna fu tutt’altro che secondario per il settore ittico, una delle principali voci nell’economia del paese.

Gli islandesi, circondati da un mare ricchissimo di pesce, non hanno mai apprezzato la presenza dei pescherecci inglesi che già dagli anni Cinquanta stazionavano al largo delle loro coste. Per allontanare gli sgraditi ospiti l’Islanda cominciò così ad allargare gradualmente il limite delle acque territoriali da 3 a 12 miglia. I pescherecci stranieri, sebbene irritati, non si fecero scoraggiare e continuarono a fare incetta di pesce nelle acque artiche attorno all’Islanda, fino a quando la tensione salì, e nel 1975 Reykjavik rispose spostando il limite a 200 miglia. Nel corso delle cod wars il Regno Unito arrivò a boicottare i prodotti ittici islandesi. I britannici vennero però presto sostituiti dall’Unione Sovietica, che in questo settore divenne in breve tempo l’acquirente numero uno dell’Islanda.

A tutt’oggi quello delle acque territoriali è una questione molto sentita nel paese, ed è sicuramente una delle ragioni di tanta diffidenza nei confronti dell’Unione Europea: gli islandesi non vogliono certo vedersi costretti ad accettare scomode norme dettate dall’alto sulle preziosissime acque territoriali.

Grazie alla base Nato l’isola fu travolta da un’ondata di modernizzazione di impronta statunitense. I numerosi matrimoni misti, una rinnovata mentalità in un popolo di pastori e pescatori, e i mutamenti nella vita quotidiana furono tutte conseguenze dell’americanizzazione portata dai militari. Anche ora le grandi automobili che sprecano benzina a sproposito, la malsana tendenza a consumare cibi spazzatura e le stazze di molti abitanti sono alcune delle caratteristiche più evidenti che l’Islanda ha in comune con gli Stati Uniti.

La base, con i suoi cinquemila soldati, significò anche opportunità di lavoro per gli abitanti della zona di Keflavik. La richiesta di manodopera locale crebbe in poco tempo e moltissime persone trovarono impieghi in relazione alla base, che per anni fu per gli abitanti del luogo una sorta di grande azienda estera dispensatrice di lavoro. Insomma l’esercito americano con le sue attività collaterali portò indubbiamente anche ricchezza. La regione infatti conobbe un’esponenziale crescita economica, tanto che quando la base chiuse nel settembre 2006 l’area di Keflavik, un tempo tra le più prospere del paese, venne afflitta da un alto tasso di disoccupazione.

Le mutate condizioni strategico-politiche e le proteste della destra conservatrice da una parte, e della sinistra islandese dall’altra, portarono alla fine di questo lungo periodo di bengodi. Oggi nonostante le varie proposte, il governo non ha ancora deciso come utilizzare la base e questo vuoto scheletro di cemento resta lì in silenziosa attesa del proprio destino.

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L’Harpa Concert Hall, il simbolo di un popolo amante della cultura

La metà degli islandesi legge i libri scritti dall’altra metà” dice un proverbio locale.

Infatti l’Islanda è la patria delle saghe e il luogo che ha la più alta percentuale, in proporzione alla popolazione, di lettori e scrittori. In questo paese di sole 332.000 anime ogni anno vengono venduti circa 400.000 biglietti teatrali.DSC_0319p Insomma, sembrerebbe che la cultura sia per gli islandesi una consolazione, una cara compagna che tiene lontana la solitudine, illumina le lunghe notti invernali e scalda il cuore nelle algide giornate ventose.

Ne sono una dimostrazione l’attiva partecipazione degli islandesi a concerti e conferenze, l’assidua frequentazione di biblioteche, librerie e teatri. Tra l’autunno 2008 e l’inverno 2009, ovvero in piena crisi economica, la principale casa editrice del paese, invece di fallire o veder diminuire vertiginosamente le proprie entrate, raddoppiò il fatturato. Tradotto in altri termini: in un periodo di profonda instabilità finanziaria gli islandesi hanno letto di più. Forse hanno trovato rifugio nella letteratura.

Emblema di questo amore per la cultura è l’Harpa Concert Hall, l’auditorium di Reykjavik. Ogni grande città che si rispetti ne ha ormai uno e anche l’Islanda ha deciso di non essere da meno. Così la capitale islandese ha ceduto alla tentazione di lanciarsi in questa implicita gara architettonica a chi costruisce il più avveniristico auditorium.

L’Harpa è situato sul lato nord della città da cui guarda il mare con le sue diecimila finestre dai riflessi caleidoscopici. È un edificio cristallino, dalla geometrica e precisa spigolosità, un gigante di vetro e acciaio, dinamico nelle facciate composte dalle finestre modulari, che ad ogni riflesso di sole assumono colori diversi l’una dall’altra. Mi siedo all’interno a guardare le barche ormeggiate nel porto sottostante e mi perdo a contemplare la baia attraverso questa grande parete vetriata che sminuzza il paesaggio marino in tante angolose gocce di vetro.

L’auditorium di Reykjavik, con la sua trasparenza e i suoi giochi di luce, vuole essere un tributo alla luce nordica e alla selvaggia natura islandese. Non a caso le sale da concerto portano i nomi dei quattro elementi: Aria, Fuoco, Acqua e Terra. Deve essere suggestivo stare di fronte a questo auditorium nelle buie notti invernali e ammirarlo scintillare nella sua colorata brillantezza, ma io, che ci sono venuta in un momento dell’anno che non conosce buio, devo accontentarmi della meno romantica luce diurna.

Riflettendo sulla recente storia economica dell’Islanda e sulla sua dinamicità culturale, penso che l’auditorium di Reykjavik è in un certo senso la metafora di questo paese. 

L’edificio, progettato nel 2004 e inaugurato solo nel maggio 2011, è innanzitutto un luogo all’altezza della vivacità culturale dell’Islanda (e il fatto che l’isola non avesse un auditorium era un’anomalia), ma è anche il simbolo del superamento della bolla finanziaria che nel 2008 travolse l’isola. Quell’anno la costruzione dell’auditorium, che costò 150 milioni di dollari, subì una battuta d’arresto a causa del tracollo dell’economia islandese, ma grazie alla tenacia e al superamento dell’impasse finanziario, l’edificio fu portato a termine e solo tre anni dopo aprì i battenti al grande pubblico. Di questo coraggioso superamento, definito “la soluzione islandese”, vale la pena spendere qualche parola.

Tutto cominciò qualche anno prima, nel 2003, quando i banchieri privati che avevano ormai acquisito tutti i principali istituti di credito islandese, cominciarono a mettere in moto un pericoloso gioco finanziario creando aziende fittizie nei paradisi fiscali. Dopodiché gonfiarono i propri capitali per ottenere altri soldi da investire, denaro che arrivava dagli investitori esteri (principalmente inglesi e olandesi) attirati dai conti online, gli Icesave, che promettevano altissimi rendimenti.

Quando questa spirale malata esplose nel 2008, l’intero sistema finanziario islandese andò in frantumi. L’allora primo ministro, Geir Haarde, chiese un prestito di 2 miliardi e 100 milioni al Fondo monetario internazionale e impose alla popolazione islandese di saldare il debito. La risposta fu negativa: gli islandesi si ribellarono e assediarono il parlamento asserendo con fermezza che non avrebbero pagato i debiti di nessuno.

Seguirono due anni di esplicite minacce di Gran Bretagna e Olanda durante i quali la popolazione rifiutò qualsiasi compromesso con le èlite finanziarie internazionali. Infine, dopo aver mandato a casa due premier e aver ribadito in un apposito referendum il categorico rifiuto al pagamento del debito, l’economia islandese cominciò lentamente a ricrescere.

L’Islanda riuscì a non pagare i debiti e a mettere sotto processo il premier Haarde per il suo operato ambiguo e tutte le persone coinvolte nello scandalo finanziario. Fu una rivoluzione sconosciuta: il rumore metallico delle pentole e padelle percosse dalla rabbiosa folla reykjavikiana che accerchiava l’Althingishus, il parlamento islandese, le nostre televisioni non ce lo hanno fatto sentire.DSC_0353p

Tanta consapevolezza del proprio ruolo all’interno della società e una tale partecipazione alla vita politica sono sicuramente risultato di una lunga tradizione democratica, risalente al 930 d. C., ma anche l’effetto del sincero amore di questo popolo per la cultura in tutte le sue forme.

Fatta eccezione per l’Harpa Concert Hall e la cattedrale di Hallgrimskirkja, con le sue colonne di basalto che protese verso il cielo la fanno sembrare un imponente organo grigio, Reykjavik manca della maestosità delle altre capitali del continente. È schiva e dimessa, come se fosse rimasta un sonnolento villaggio sulla costa. Qui regna un’atmosfera di essenzialità quasi contadina, una purezza delle forme che non stanca l’occhio.

Le case basse somigliano a graziosi prefabbricati dai tetti coloratissimi: giallo, azzurro, rosso, verde e celeste danno un senso di spensierata allegria. I lati dei palazzi invece sono coperti di murales originali che non sono lo sfogo di una gioventù rabbiosa che si sente inadeguata alla vita, ma hanno piuttosto l’aria di essere dei graffiti commissionati o comunque apprezzati, disegni che danno un tocco di dinamicità alla città.

Passeggiando tra le strade dall’aria informale di questa piccola capitale, gli episodi di cronaca nera dei romanzi del commissario Erlendur Sveinsson, (personaggio dello scrittore islandese Arnaldur Indridason), ambientati proprio qui, sembrano inverosimili. Reykjavik ha l’aria di un paesello dall’anima innocente e non me la immagino proprio teatro di cruenti omicidi.

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Nelle indagini dell’investigatore Sveinsson infatti, la polizia si trova spesso ad indagare su vecchi casi archiviati o su persone scomparse a causa del maltempo piuttosto che su delitti intenzionali. L’abito però non fa il monaco e, per rimanere nel panorama letterario islandese, basta leggere “101 Reykjavik” di Halgrimur Helgason, spaccato dell’esuberante gioventù di Reykjavik, per intuire che dietro tanta tranquillità si cela un’anima cupa e trasgressiva, forgiata da un clima scontroso e dall’isolamento.

Finisco la giornata davanti a cinque assaggi di birre artigianali al Micro Bar, un piccolo locale in pieno centro che promuove i microbirrifici islandesi (motivo per cui questa birreria si chiama “Micro Bar”). La scelta aziendale è coraggiosa e interessante: qua non si viene semplicemente a bere, per quello ci sono tanti altri posti in città, in questo luogo invece si viene per gustare birre rare, ma soprattutto islandesi. Quindi se vi presenterete al bancone chiedendo una comunissima birra commerciale che potreste tranquillamente acquistare in un qualsiasi supermercato nella vostra città, probabilmente non la troverete.

Quella della birra in Islanda è una storia singolare. Dal 1915 fino al recente 1989 infatti era un prodotto proibito. Consumare birra era considerato un costume tipicamente danese e, dal momento che l’Islanda era sotto il dominio del Regno di Danimarca, se ne liberò solo nel 1944, la birra era considerata la bevanda degli usurpatori.

La cosa strana però è che tutti gli altri tipi di liquori erano invece legali. Il governo infatti considerava il basso tasso alcolico della birra un’arma a doppio taglio. Essendo una bevanda molto leggera si rischiava di sottovalutarne la pericolosità: troppo facile alzare il gomito e ritrovarsi ubriachi senza neanche accorgersene. Secondo questo ragionamento dunque la consapevolezza della latente perniciosità dei superalcolici avrebbe dovuto spingere le persone a un consumo più ponderato.

“Fatta la legge, trovato l’inganno”, diremmo noi in Italia. Infatti gli islandesi non si lasciarono scoraggiare e inventarono i “Bjorbollur”, degli originali cocktails prodotti miscelando il bjorliki, una pseudo birra ottenuta dalla vodka, ad altri liquori. Per anni gli islandesi poterono comprare solo birra di contrabbando proveniente dall’estero, ma le cose si fecero più facili con l’arrivo degli americani, che negli anni Cinquanta aprirono una base Nato a Keflavik. Per i militari statunitensi venne riaperto l’Olgerdin Egill Skallagrimsson, il più antico birrificio islandese. La birra lì prodotta era destinata esclusivamente all’esercito americano di stanza nella penisola di Reykjanes, ma non fu poi così difficile per gli abitanti del luogo riuscire ad averla di contrabbando.

Solo nel 1989 il governo rese nuovamente legale l’acquisto e il consumo di birra e il 1 marzo, data che corrisponde al giorno della legalizzazione, è per gli islandesi il “Bjordagur”, la giornata della birra.

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Icelandic Dream, lo stato libero d’Islanda

Il cielo basso e triste è carico di una densissima umidità che mi si appiccica addosso e si insinua sotto la pelle.

Il primo impatto con quest’isola sperduta tra America e Europa, è il freddo pungente anche in piena estate e gli immensi orizzonti di lava secolare. Non è proprio lo scenario di una terra accogliente e il percorso che collega l’aeroporto alla capitale ne è un assaggio.

La strada, che attraverso a bordo di una corriera dal momento che l’Islanda non ha treni, taglia in due una distesa di lava solidificata sulla quale cresce la tundra. Questa brillante peluria verde riveste un deserto di grandi colate laviche che sembrano un oceano di onde pietrificate. Mi immagino questo denso fiume di lava incandescente che, milioni di anni fa, uscendo lentamente dalla terra si deposita stanco sul suolo islandese e si spegne poco a poco, dando vita a questo enorme tappeto crostoso che ammanta a perdita d’occhio la penisola di Reykjanes.

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In città ho appuntamento con la proprietaria della casa in cui alloggerò per i prossimi tre giorni, ma non riesco a trovare nessuno. Mi guardo intorno in cerca di una giovane ragazza dalle fattezze nordiche che potrebbe essere la mia Audur Nonsocosa (i cognomi islandesi mi rimangono ostici). Di ragazze bionde dalla pelle diafana ce ne sono molte e, indecisa rimango lì con le valigie ai piedi guardandomi introno. Dopo poco mi si presenta una signora magra, dall’aria simpatica e la voce gioviale che mi parla in un inglese disinvolto e mi accompagna nella sua casa.

Arriviamo in una graziosa villetta dal tetto spiovente, tutta punte e angoli acuti, con ampie vetrate da cui entra la luce continua della breve estate islandese. Audur mi mostra l’ampio appartamento luminoso e semplice, ma non freddo: c’è qualcosa nel minimalismo nordico che, nonostante le linee essenziali e i colori candidamente puri, rende incredibilmente accoglienti le case scandinave.

Sono eccitata dal viaggio e, sebbene stanca, decido di fare una lunga passeggiata a piedi fino in centro passando per la strada costiera Saebraut, lungo la costa di Reykjavik. Bardata con la mia giacca imbottita e gli scarponcini da trekking, neanche dovessi scalare un’impervia montagna, mi dirigo verso ovest, costeggiando il lungo mare sul marciapiedi d’asfalto bordato da lunghe zolle di prato verde che gli operai stanno deponendo sulla terra bruna. Il rigido clima islandese mi grazia e un inaspettato sole fa luccicare il mare, come se l’acqua fosse punteggiata da miriadi di piccolissimi diamanti, mentre il mio sguardo si perde oltre la distesa argentea della baia.

Lungo il Saebraut arrivo al Solfar, la scultura che l’artista Jon Gunnar Arnason realizzò per la celebrazione del duecentesimo anniversario di Reykjavik, ispirandosi alle antiche barche vichinghe. È fatta di lucente acciaio e di remi stilizzati che arcuandosi arrivano fino in terra facendola sembrare uno strano insetto proteso in avanti nell’atto di tuffarsi nelle acque scure. La piattaforma circolare su cui è appoggiata è uno specchio che riflette la scultura dando l’impressione che la barca stia davvero galleggiando sull’oceano. Arnason con la sua idea di viaggiatore del sole, questa è la traduzione della parola “Solfar”, voleva rappresentare le navi che navigarono in direzione ovest verso il tramonto. La scultura infatti simboleggia la promessa di un nuovo territorio da scoprire: praticamente la storia della nascita del popolo islandese.

Terra disabitata e vuota, l’Islanda fu scoperta nel vero senso della parola, e non come l’America già abitata prima dell’arrivo degli europei. DSC_0300L’isola fu colonizzata da coraggiosi uomini che arrivarono in nave solcando le gelide acque tempestose di quello che veniva definito oceanus innavigabilis.

L’era della colonizzazione d’Islanda comincia relativamente tardi, nell’870 d.C. dopo che i vichinghi provenienti dalla Norvegia vi approdarono.

Già nell’865 il norvegese Floki Vilgerdarson in fuga dal paese natìo a causa di sanguinose dispute politiche, provò a stabilirsi sull’isola, ma venne respinto da questa terra aspra e indomabile. Per due anni tentò di avviare un insediamento stabile, ma scoraggiato dalle terribili condizioni meteorologiche e gli imponenti iceberg che galleggiavano alla deriva, dovette rinunciare. Infine si ritirò sconfitto e con rammarico ribattezzò l’isola “Island”, terra di ghiaccio.

I norvegesi ci riprovano nell’871 con Ingolfur Arnarson che riuscì a resistere e passò alla storia come il primo colonizzatore dell’Islanda. Ebbe così inizio l’era della colonizzazione in cui i contadini della penisola scandinava, in fuga dal dispotico re norvegese, si riversarono in massa sull’isola con la speranza di libertà e indipendenza. È una storia per certi versi simile alla colonizzazione dell’America: persone in cerca di una vita migliore che sognano una nuova terra in cui ricominciare da capo, lontani dalle ristrettezze del vecchio continente.

Se per gli europei il nuovo continente rappresentava l’American Dream, per i norvegesi di allora la lontana isola nell’Atlantico era il loro Icelandic Dream. Finalmente nel 930 i coloni proclamarono lo Stato Libero d’Islanda, e fondarono il primo parlamento d’Europa, a Thingvellir, 50 chilometri da Reykjavik.

 

 

 

Angkor, lo splendore Khmer assediato dal turismo di massa

È mattino, poco dopo il sorgere del sole e io pedalo su una strada malamente asfaltata, ammantata dalla giungla.

La luce dorata dell’alba filtra polverosa tra i rami fitti degli alberi secolari e cade sulla rossa terra cambogiana. Tutto attorno quiete: solo il canto esotico degli uccelli tropicali celati tra le foglie infrange il silenzio. Ho deciso di visitare l’enorme complesso archeologico di Angkor in bicicletta, un mezzo che mi è sembrato più adatto per godere appieno l’aura mistica di questo luogo dal fascino inquietante.

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Angkor fu la capitale dell’impero khmer sorto intorno al IX secolo dopo Cristo nel Kambuja, la terra della stirpe di Kambu l’asceta, l’odierna Cambogia. Il nome “Angkor” deriva dal sanscrito nagara e vuol dire per l’appunto “capitale”. Oggi di quella gloriosa città rimangono solo i monumentali templi; degli edifici civili invece, costruiti in materiali deperibili in quanto abitazioni di comuni mortali, non vi è traccia: sono tutti stati divorati dal tempo. Quello che si vede oggi è dunque un enorme città fatta di templi di pietra, anneriti dalle intemperie e circondati dalla foresta.

Il periodo angkoriano inizia nell’802 con il governo di Jayavarman II il fondatore dell’impero, che sulla montagna sacra di Phnom Kulen inaugurò lo shivaismo devaraja, il culto del Dio-re, secondo cui il sovrano è la rappresentazione terrena del dio Shiva ed esercita il potere per mandato divino. Il periodo di gloria architettonica inizia però solo con Indravarman, il primo dei grandi sovrani costruttori. Lo scavo del lago Indratataka, portato a termine dal suo successore Yasovarman, dà il via al sistema dei baray, che caratterizza Angkor, i bacini artificiali d’acqua che servivano per sopperire ai bisogni idrici della città, ma anche come emblema dell’oceano primigenio.

Il complesso templare di Angkor infatti è la rappresentazione in terra della dimora delle divinità hindu. Ogni tempio è carico di simbolismo e scene tratte dalle epopee induiste del Ramayana e del Mahabharata. DSC_0190pI bassorilievi che arricchiscono le costruzioni raffigurano episodi tratti dai testi sacri e personaggi mitologici, come le sensuali apsara dal sorriso ambiguo, danzanti ninfe celesti, motivo decorativo introdotto proprio dai khmer che per primi presero a scolpirle sulle pareti dei templi. I santuari sono poggiati su piattaforme e si elevano verso cielo sormontati da guglie, i prasat, che riproducono la montagna cosmica, dimora degli dèi e centro dell’universo. Queste torri, riccamente scolpite con bassorilievi e nicchie ghirlandate da fiamme, si sviluppano su falsi piani e finiscono con motivi decorativi a forma di fiore di loto, simbolo di purezza.

Ad Angkor gli elementi architettonici non sono mai casuali. Le balaustre serpentiformi raffigurano il naga, serpente policefalo della mitologia hindu che simboleggia il ponte tra terra e cielo. E la balaustra che delimita i ponti d’accesso al complesso dell’Angkor Thom è la rappresentazione della “zangolatura dell’oceano”, episodio mitologico narrato nel Mahabharata. Il serpente che funge da parapetto è retto da un ingegnoso sistema composto da possenti statue raffiguranti i giganti dell’oceano di latte, ognuno scolpito con una faccia diversa, nell’atto di tirare il corpo del cobra. Il mito è ambientato in un epoca di scontri tra deva, gli dèi, e asura, gli antidèi.

Secondo la leggenda, per vincere la battaglia tra dèi e antidèi, Vishnu suggerì alle divinità uno stratagemma per procurarsi l’amrita, un nettare in grado di rendere immortale chi lo avesse bevuto. DSC_0015pMa poiché l’ambrosia si trovava negli abissi dell’oceano di latte, gli dèi ebbero bisogno dell’aiuto dei loro nemici, strinsero dunque una subdola alleanza con gli asura promettendo loro una parte del nettare. Per estrarre l’amrita si servirono di Vasuki il serpente che fu arrotolato attorno alla montagna cosmica; dopodiché, deva da una parte e asura dall’altra, afferrarono il lungo corpo dell’animale e cominciarono a tirarlo facendo ruotare il monte in modo da frullare l’oceano di latte ed estrarre l’ambrosia. Ottenuta l’amrita, gli dèi riuscirono con furbizia ad ingannare i demoni e a bere tutto il nettare diventando invincibili e sconfiggendo una volta per tutte gli antidèi.

Altro mirabile esempio di simbolismo è il Bayon, tempio attorno al quale fu costruita Angkor Thom (letteralmente la “grande capitale”). L’edificio fu voluto dal sovrano buddista Jayavarnam VII che nel 1181 riconquistò Angkor caduta in mano ai cham e sostituì lo shivaismo monarchico con il buddismo di stampo mahayana, identificandosi in Avalokiteshvara, il bodhisattva della compassione.

Il Bayon, con i suoi 216 volti estatici di Avalokiteshvara scolpiti sulle torri, è ricco di simboli mutuati dalla cosmografia hindu. In quanto rappresentazione del sacro monte Meru, la montagna protagonista del mito dell’estrazione dell’amrita, questo tempio vuole essere la metafora dell’indistruttibilità di Angkor Thom.

Jayavarman VII era infatti ossessionato dall’idea di invincibilità: reduce da una guerra contro i cham, popolo che aveva osato saccheggiare Angkor la città simbolo del potere del sovrano, sentiva il bisogno di riconsolidare l’autorità dell’impero.

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Angkor cadde definitivamente nel 1431 per mano dei thai e fu lentamente sepolta dalla giungla circostante. L’Angkor Wat (il più famoso tempio del sito) però, fu trasformato in un monastero buddista e continuò ad essere frequentato.

L’antica capitale sebbene visitata sporadicamente anche da stranieri nel corso dei secoli, tornò alla ribalta solo in seguito alla pubblicazione nel 1868 di “Voyage à Siam et dans le Cambodge” di Henri Mohout, che si era recato in Indocina per una spedizione finanziata dalla Royal Geographic Society. Il libro riscosse un immediato successo e alimentò l’immaginazione di avventurieri romantici e studiosi che arrivarono ad Angkor per studiarla e contemplarne l’estatica bellezza.

I templi sono oggi restaurati con il contributo di alcuni paesi stranieri, tra cui Stati Uniti e Giappone, e liberati dalla vegetazione che aveva preso possesso degli edifici corrodendoli anno dopo anno.

Ma c’è un tempio volutamente lasciato nelle grinfie della natura e solo parzialmente ristrutturato grazie alla partecipazione del governo indiano: il Ta Prohm.

Qua la giungla mangia ancora la pietra dei templi e gli altissimi alberi di ficus avvolgono con le loro tentacolari radici le costruzioni distruggendole poco alla volta in un groviglio di rami e liane.

Al Ta Prohm, immersi nel silenzio mattutino, si rivive la poetica suggestione dei templi assediati dalla foresta, quel profondo sentimento di decadente gloria che dovevano aver provato i primi esploratori di fronte alle rovine di Angkor. Almeno se lo si visita il mattino presto, quando le folle di visitatori dei tour organizzati sono ancora impegnate altrove, a immortalare la gotica silhouette dell’Ankgor Wat che si specchia nel bacino nordoccidentale alle luci dell’alba.DSC_0249p

Se un tempo i templi erano assediati dalla giungla, oggi sono assediati dai turisti. Quello turistico, con una crescita media annua del 14%, è uno dei settori trainanti dell’economia del paese. Secondo il Ministero del Turismo cambogiano l’afflusso di visitatori stranieri è quasi raddoppiato in cinque anni andando dai 2.508.289 di ingressi nel 2010 ai 4.775.231 del 2015.

Angkor è un arricchimento emozionale e culturale per chiunque la visiti, e l’incremento di turisti genera posti di lavoro in uno dei paesi più poveri al mondo (la Cambogia è tredicesima in Asia per grado di povertà). Tuttavia il massiccio afflusso turistico è la causa di recenti problemi di conservazione.

Negli ultimi tempi l’Apsara authority, l’ente che si occupa della protezione e della gestione del patrimonio culturale di Angkor, ha preso alcuni provvedimenti per salvaguardare il sito archeologico. Si è reso necessario porre un limite massimo di 300 visitatori per volta sul Phnom Bakheng, il santuario piramidale dal quale si vede il tramonto sull’Angkor Wat.

Sono stati intensificati i controlli per scoraggiare i turisti poco rispettosi che si arrampicano su balaustre ed edifici e alcuni camminamenti sono stati ricoperti da passerelle di legno per preservare i pavimenti in pietra dai flussi interminabili di visitatori che li percorrono.

Le masse di vacanzieri dei viaggi organizzati sono poi un ulteriore fattore a sfavore del turismo: i grandi gruppi chiassosi di persone preoccupate unicamente a farsi selfie da postare sui social network, distruggono l’aura di spiritualità che permea Angkor. Coprono con il loro vociare senza ritegno i rumori della giungla circostante e offuscano lo splendore architettonico dei templi.

Su questo tema profetiche furono le parole di Tiziano Terzani quando nel 1993 scriveva: “Angkor, a causa della, o forse bisogna dire, grazie alla guerra che per decenni ha travolto l’intera Indocina nella miseria, non è ancora sul cammino delle orde barbariche dei turisti; è ancora intatta, indisturbata, verginale, l’ultima forse fra le grandi meraviglie del mondo”.

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Un viaggio in aereo sarebbe stato più comodo…

“Lady tuk tuk! Lady tuk tuk!”

Le strade sono invase da questi risciò motorizzati che in Indocina chiamano tuk tuk. Tutti i conducenti che mi vedono a piedi mi chiamano con il braccio alzato per vendermi un passaggio.

Siem Reap, la città che ho raggiunto via terra dalla Thailandia, è un continuo di clacson e veicoli di vario genere che sfrecciano in ogni direzione senza curarsi dei sensi di marcia. Agli incroci vale la legge del più forte. Lungo le strade guidatori di tuk tuk riposano all’ombra di capanne polverose su amache improvvisate in attesa dei turisti di ritorno dai templi di Angkor. I motorini sfrecciano con a bordo tre, anche quattro persone schivando con destrezza galli, cani randagi, curiosi macachi diffidenti e pelosi maiali neri che rovistano nella spazzatura a bordo strada.

Sono arrivata in Cambogia da Bangkok su un autobus tailandese attraversando il confine a Poipet, una squallida città di frontiera animata da cadenti casinò dai nomi altisonanti. Qua vengono a giocare i tailandesi poiché in patria la legge vieta il gioco d’azzardo. Per loro entrare nel Regno di Cambogia è semplicissimo: basta attraversare il lungo corridoio sulla strada che porta a Poipet. In quanto cittadini di uno stato membro dell’Asean (Association of South East Asian Nation) non hanno bisogno di sottoporsi ai controlli doganali che vengono richiesti ad altri stranieri.

La burocrazia riservata agli occidentali invece è fatta di lunghe file, moduli, timbri e ovviamente soldi. Il visto cambogiano all’arrivo costa 30 dollari statunitensi e 100 baht tailandesi. La prima somma entra nelle casse dello stato, la seconda nelle tasche dei funzionari di frontiera. La Cambogia, penso mentre consegno la “mazzetta” al funzionario seduto dietro al vetro, è al 160° posto nella classifica mondiale sulla corruzione. Si tratta comunque di poca roba: poco meno di 3 euro, una cifra che anche il più squattrinato backpacker può permettersi di sborsare; e comunque non c’è scelta, la bustarella va pagata, e chi si presenta solo con la somma “ufficiale” viene rispedito, in modo sbrigativo e senza alcuna spiegazione, in coda alla fila. Se ci si incaponisce alla fine si ottiene comunque il visto, ma si allungano le pratiche e fare la fila da capo più volte può essere irritante.

Il viaggio di sei ore e le lungaggini burocratiche non sono state le uniche cose stancanti della giornata. Solo poche ore prima, nella capitale tailandese, avevo passato un bel po’ di tempo a cercare la stazione di Mo Chit servita dalla compagnia di autobus diretti in Cambogia.

Bangkok è una città che si ama o si odia, non ci sono mezze misure. Io la amo, ma riconosco che spesso può risultare esasperante. A Bangkok non si può dare nulla per scontato, anche una stazione grande come quella di Mo Chit va cercata con molta pazienza e sesto senso. Infatti non si trova affatto all’uscita dell’omonimo capolinea dello Sky train, la metropolitana della città, ma a tre chilometri di distanza svoltando più volte, senza l’ausilio di indicazioni stradali. E anche una volta arrivati, bisogna continuare con fede a cercare perché la prima cosa che si trova è una stazione poco frequentata con vetture sgangherate parcheggiate sul piazzale assolato. Si tratta del terminal di autobus urbani, quello delle partenze nazionali e internazionali è nascosto dietro un dedalo di bui vicoletti in terra battuta dell’ennesimo bazar di strada di Bangkok, tra galline appollaiate sui tavoli e venditori di borse contraffatte e telefoni cellulari.

La fabbrica chimica dell’unione sovietica

“Siamo arrivati in Bangladesh” esordisce Krikor quando in macchina arriviamo poco fuori la capitale. Lo guardo interrogativa e lui mi sorride misterioso mentre continua a guidare. Osservo la città dal finestrino e non capisco: stiamo attraversando la periferia di Yerevan, un susseguirsi di alti condomini sovietici. Di bengalese non mi sembra ci sia nulla. Glielo faccio notare e lui allora mi racconta un simpatico aneddoto. Questi palazzi furono costruiti dallo stato durante la nuova pianificazione della città in epoca sovietica per trasferire parte della popolazione che abitava in centro. Oggi questi quartieri non sembrano lontani dalla capitale, ma negli anni Settanta erano percepiti come irraggiungibili, una manciata di case nuove in mezzo al nulla. “Un signore che abitava nel centro di Yerevan, quando fu trasferito in questa nuova periferia, si lamentò con il governo e, esasperato dall’indifferenza dei quadri locali, finì con l’inviare una lettera di lamentele a Mosca. Diceva che non era giusto che l’avessero trasferito in Bangladesh! Talmente gli sembrava un posto lontano, che lo aveva chiamato proprio così: Bangladesh. Quando a Mosca lessero la lettera, si dice che uno dei dirigenti che si occupava di urbanistica, commentò: ‘Almeno date a questo povero uomo una casa all’interno dell’Unione Sovietica!’ Da quel momento è rimasto questo modo di chiamare la periferia di Yerevan, Bangladesh”. Abitarci non è particolarmente comodo neanche oggi, mi spiega, i collegamenti pubblici sono scarsi e il modo più comodo per spostarsi rimane l’automobile, ma anche così bisogna fare i conti con il traffico.

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Poco più lontano, il paesaggio cambia. Ora non si vedono più i grigi palazzoni di periferia, ma una piatta distesa di erba gialla incrostata da vecchie fabbriche arrugginite. Per qualche chilometro da entrambi i lati della strada questi monumenti di archeologia industriale stanno lì a ricordare un glorioso passato. Sono le fabbriche chimiche dell’Unione Sovietica, oggi in disuso, totalmente abbandonate all’incuria del tempo e alle intemperie. L’economia dell’Urss era divisa in compartimenti stagni: ogni repubblica doveva produrre un determinato prodotto, imposto dall’alto, dopodiché il sistema di importazione ed esportazione interno all’Unione garantiva ad ogni Soviet tutto ciò di cui aveva bisogno. DSC_009L’Uzbekistan produceva solo cotone, il Kazakistan serviva come luogo per gli esperimenti nucleari e pattumiera delle scorie, l’Azerbaigian forniva petrolio e così via. In questa rigida pianificazione economica l’Armenia era l’industria chimica dell’Urss. Con la caduta dell’Unione Sovietica però questo sistema crollò creando una serie di problemi di carattere socioeconomico. Le varie repubbliche, che prima erano interdipendenti, ora non hanno un’economia complessa e mancano di quel minimo di autarchia necessaria. Sanno produrre quasi solo i prodotti che l’Urss aveva imposto loro e si trovano costretti a importare tutto il resto. Per paesi come l’Armenia e la Georgia, la situazione è più grave perché a differenza del vicino Azerbaigian, ricco di petrolio, non possono contare su risorse minerarie consistenti.

Con il tempo le fabbriche chimiche sono andate deteriorandosi. I finanziamenti per mantenerle hanno cominciato a scarseggiare così come la produttività. Oggi di quell’industria che dava lavoro a gran parte della popolazione armena e che riforniva una delle più grandi potenze mondiali, non rimangono che scheletri dimenticati nella sterpaglia. “Queste strutture sono a un tale livello di abbandono che costerebbe troppo anche ristrutturarle. Non conviene farci nulla. Meglio lasciarle così” mi spiega con rammarico Krikor che è un nostalgico dell’Unione Sovietica. Anche chi si lamentava del regime, oggi ammette che si sta peggio. “Abbiamo barattato la sicurezza che avevamo sotto l’Unione Sovietica per una libertà fasulla. Non siamo più liberi di prima, una volta avevamo il regime, ora le leggi del mercato libero che ci schiavizzano e ci impoveriscono. Dietro la facciata di libertà si nasconde un sistema economico famelico”. È un discorso che ho sentito spesso anche nei miei viaggi in Romania. Le generazioni che hanno vissuto sotto Ceaucescu spesso sottolineano che sotto il regime c’era più sicurezza, tutti avevano il necessario: un posto di lavoro, una casa, un’ottima istruzione e i beni primari non mancavano. Oggi per avere tutto, dicono, non riescono ad ottenere nulla. Per noi occidentali sono discorsi difficili da digerire. Non ci crediamo, non vogliamo credere che una dittatura sia meglio di una democrazia traballante. Ci spertichiamo in lodi per il sistema democratico che, continuiamo a sostenere, nonostante tutti i difetti è il migliore che esista e pensiamo che sia meglio una vita piena di incertezze, ma libera. Per quelli che la pensano come Krikor invece si stava meglio quando si stava peggio.

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All’ombra del monte Ararat

Devo ammettere che il primo impatto con l’Armenia mi ha spiazzata. Me la immaginavo spirituale, mistica e romantica. Invece mi sono trovata in un paese povero e imbruttito dalla sgraziata eredità architettonica sovietica che è riuscita ad appiattire la meravigliosa architettura armena fino a farla diventare ormai uno sbiadito ricordo. Solo in seguito, percorrendo antichi sentieri della via della seta, esplorando magnifiche gole rocciose e contemplando decadenti monasteri nascosti tra le montagne, sono riuscita a riconciliarmi con questo paese malinconico.

Atterro a Zvartnots, il minuscolo aeroporto di Yerevan, in piena notte: i voli da e per l’Europa occidentale sono tutti notturni e il mio non fa eccezione. Ad attendermi c’è Krikor, un corpulento signore di mezza età, dalla barba grigia e gli occhi tristi, che mi farà da guida nel mio breve viaggio in Armenia. A dispetto dell’aria severa, Krikor si dimostra molto gentile ed accogliente, subito pieno di premure. Imparerò presto che dietro l’aspetto severo e malconcio delle città si nascondono delle persone cordiali sinceramente felici di accogliere i forestieri. Lo spirito armeno dell’ospitalità è autentico, non ancora inquinato dalle fredde leggi del turismo di massa.

Per me è il primo viaggio in una ex repubblica sovietica e nonostante la spinta modernizzatrice le tracce del passato sovietico sono ancora visibili. Spesso come ferite male cicatrizzate.

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Yerevan è una capitale spoglia, di una bellezza discreta, gloriosa e dimessa al tempo stesso. Orgogliosa, ma anche timida, sembra quasi si sforzi di apparire più maestosa di quello che in realtà è. Un po’ ci riesce, ma basta girare l’angolo per respirare la polvere dei cantieri che provano a tirarla a lucido. Il parco dell’Opera con i suoi cafè all’aperto e l’atmosfera rilassata è un posto grazioso in cui trascorrere un pomeriggio, ma con una breve passeggiata si possono vedere alcuni smunti condomini sovietici di tufo rosa. L’emblema di questa dualità è il complesso Cascade, uno dei simboli della capitale, monumento di epiche proporzioni costruito nel 1970 per celebrare i 50 anni del Soviet. Si tratta di una grandiosa scalinata in pietra bianca che partendo dal centro città si arrampica su una collina da cui si vede tutta Yerevan. Guardandola dal basso la struttura dà l’idea di trovarsi di fronte a una larga cascata che scende dolcemente verso la città. Da qui il nome “Cascade”. Man mano che si sale ci si può soffermare ad ammirare le grandi statue che decorano ogni piano del complesso. Moderne sculture e fontane spente si succedono lungo la salita facendo della Cascade una sorta di galleria d’arte a cielo aperto. Ma lo spettacolo di maestosità viene bruscamente interrotto verso la cima, quando il monumento diventa cantiere: la Cascade è incompiuta e i lavori sono fermi. La prima parte fu portata a termine nel 1980, dopodiché l’opera fu lasciata a sé e solo nel 2002 Gerald Cafesjan, industriale newyorkése di origine armena, contribuì finanziariamente per far riprendere i lavori. Oggi però la municipalità di Yerevan non ha i fondi per completare il monumento.

DSC_003Dalla Cascade si raggiunge il parco Haghtanak (Parco della Vittoria), che ospita un piccolo luna park composto da alcuni malandati giochi. I ciuffi d’erba che bucano i sentieri asfaltati, i marciapiedi rotti e i prati dall’aria abbandonata che circondano le poche giostre arrugginite dànno al parco un sapore di disinvolta trascuratezza che ricorda i parchi di Bucarest in cui mi portavano i miei nonni da piccola. Quell’atmosfera tra l’affranto e il dignitoso che commuove a suscita tenerezza. All’estremità orientale del parco, su un massiccio piedistallo di basalto dove fino al 1967 troneggiava la statua di Stalin, si erge ora Madre Armenia: l’imponente monumento di 22 metri che guarda in direzione del monte Ararat. E mentre nella piazza antistante i bimbi si arrampicano giocosi sui carri armati e i jet di epoca sovietica, Madre Armenia con la spada e i suoi severi occhi da amazzone, sorveglia dall’alto Yerevan ai suoi piedi.

DSC_005Passeggiando nel centro storico della città mi imbatto spesso in cantieri e lotti di terra abbandonati: polverosi buchi tra un palazzo e un altro dove prima sorgevano vecchi condomini. Il paesaggio urbano di Yerevan è punteggiato da gru che sovrastano scheletri di cemento e acciaio. Krikor mi spiega che è una tendenza sempre più comune negli ultimi anni quella di abbattere vecchi edifici e costruirne di nuovi. Centri commerciali e appartamenti di lusso che rimangono poi disabitati perché solo in pochi possono permettersi di acquistarli. “La mia famiglia abitava dove adesso sorge questo palazzo” mi spiega indicandomi un moderno edificio al cui piano terra fanno bella mostra le vetrine illuminate di un grande negozio di abiti griffati. “Quando il governo decise di abbatterlo ci offrì un risarcimento misero. Molti condòmini si rifiutarono di lasciare il proprio appartamento perché con quel denaro non avrebbero potuto comprarsi casa se non fuori città. Alla fine furono fatti sgomberare con la forza”. Krikor è stato fortunato ed è riuscito a rimanere in centro, ma non è stato così per tutti.

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Il giorno seguente partiamo di buon ora verso Khor Virap, uno dei monasteri più famosi d’Armenia. Il cielo è coperto da azzurre coltri di nubi e minaccia pioggia. Già so che non riuscirò a vedere il monte Ararat che si erge alle spalle del complesso monastico. Il paesaggio, nonostante ciò, è da cartolina. Il monastero è cinto da mura e arroccato su una collina come una fortezza medievale; l’Ararat, la montagna biblica, si staglia imponente sullo sfondo con le sue nevi perenni e una distesa di ordinati filari di vitigni solcano la terra. DSC_006Khor Virap è un posto emblematico, non solo perché questo è il luogo della lunga di prigionia di San Gregorio Illuminatore, il santo che portò il cristianesimo in terra armena, ma anche perché sorge a pochissimi chilometri dal confine turco, chiuso dal 1993 e circondato da fili spinati e da torrette di guardia. Si tratta di una zona politicamente calda e l’Ararat, il monte dell’arca sacro agli armeni, sembra sia lì a ricordarlo. Così vicino ma anche così lontano, per la popolazione armena è un altro prigioniero, un’icona della travagliata storia di questa gente, a cui numerosi poeti hanno dedicato struggenti versi di nostalgia e rimpianto. Fu Lenin a “regalare” l’Ararat alla Turchia. La politica bolscevica verso l’Armenia era volta ad assicurarsi l’aiuto dei musulmani contro l’imperialismo britannico. Il trattato di Kars del 1921 poi, tagliando definitivamente fuori dal territorio armeno la capitale medievale di Ani e il monte Ararat, lasciò ad Ataturk l’Armenia occidentale. L’Unione Sovietica si accontentò della parte orientale, quel fazzoletto di terra che oggi è la Repubblica di Armenia.

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Khor Virap in armeno significa “pozzo profondo”. Infatti sarebbe proprio in questo complesso monastico che il re Tiridate III, accanito persecutore del cristianesimo, rinchiuse San Gregorio. Ancora oggi, chi non soffre di claustrofobia può calarsi nel pozzo, luogo della prigionia del santo. “Vuole la leggenda che San Gregorio riuscì a sopravvivere grazie alla compassione di una donna che di nascosto gli forniva il cibo attraverso una fessura nel muro del pozzo” mi spiega Krikor scendendo la ripida scala di ferro per accedere alla cappella. “Un giorno però, il re si ammalò di una strana malattia cDSC_0334phe nessuno riusciva a guarire. Sua sorella ebbe un sogno nel quale le fu rivelato che l’unico a poter guarire il fratello era il prigioniero del pozzo. San Gregorio guarì il re e fu liberato”.
In quello stesso anno, nel 301 d.C., Tiridate III si convertì e dichiarò il cristianesimo religione di stato. Questo fa dell’Armenia il primo paese al mondo ad adottare ufficialmente la religione cristiana. Ancora oggi la chiesa ortodossa armena, che ha un suo “Vaticano” nella città di Echmiadzin, è un elemento fondamentale nella vita di tutti gli armeni. “Il cristianesimo è un’identità per noi: rappresenta un forte legame per la nostra gente”.

Quando ci avviciniamo alla chiesa, Krikor mi fa notare alcune lettere incise nella pietra rossa delle pareti esterne. “In questo monastero si sono rifugiati gli armeni che scappavano dal genocidio del 1915. Questi sono i messaggi e i nomi che le persone affidavano ai muri della chiesa nella speranza di lasciare un indizio alle persone amate”.

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