Icelandic Dream, lo stato libero d’Islanda

Il cielo basso e triste è carico di una densissima umidità che mi si appiccica addosso e si insinua sotto la pelle.

Il primo impatto con quest’isola sperduta tra America e Europa, è il freddo pungente anche in piena estate e gli immensi orizzonti di lava secolare. Non è proprio lo scenario di una terra accogliente e il percorso che collega l’aeroporto alla capitale ne è un assaggio.

La strada, che attraverso a bordo di una corriera dal momento che l’Islanda non ha treni, taglia in due una distesa di lava solidificata sulla quale cresce la tundra. Questa brillante peluria verde riveste un deserto di grandi colate laviche che sembrano un oceano di onde pietrificate. Mi immagino questo denso fiume di lava incandescente che, milioni di anni fa, uscendo lentamente dalla terra si deposita stanco sul suolo islandese e si spegne poco a poco, dando vita a questo enorme tappeto crostoso che ammanta a perdita d’occhio la penisola di Reykjanes.

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In città ho appuntamento con la proprietaria della casa in cui alloggerò per i prossimi tre giorni, ma non riesco a trovare nessuno. Mi guardo intorno in cerca di una giovane ragazza dalle fattezze nordiche che potrebbe essere la mia Audur Nonsocosa (i cognomi islandesi mi rimangono ostici). Di ragazze bionde dalla pelle diafana ce ne sono molte e, indecisa rimango lì con le valigie ai piedi guardandomi introno. Dopo poco mi si presenta una signora magra, dall’aria simpatica e la voce gioviale che mi parla in un inglese disinvolto e mi accompagna nella sua casa.

Arriviamo in una graziosa villetta dal tetto spiovente, tutta punte e angoli acuti, con ampie vetrate da cui entra la luce continua della breve estate islandese. Audur mi mostra l’ampio appartamento luminoso e semplice, ma non freddo: c’è qualcosa nel minimalismo nordico che, nonostante le linee essenziali e i colori candidamente puri, rende incredibilmente accoglienti le case scandinave.

Sono eccitata dal viaggio e, sebbene stanca, decido di fare una lunga passeggiata a piedi fino in centro passando per la strada costiera Saebraut, lungo la costa di Reykjavik. Bardata con la mia giacca imbottita e gli scarponcini da trekking, neanche dovessi scalare un’impervia montagna, mi dirigo verso ovest, costeggiando il lungo mare sul marciapiedi d’asfalto bordato da lunghe zolle di prato verde che gli operai stanno deponendo sulla terra bruna. Il rigido clima islandese mi grazia e un inaspettato sole fa luccicare il mare, come se l’acqua fosse punteggiata da miriadi di piccolissimi diamanti, mentre il mio sguardo si perde oltre la distesa argentea della baia.

Lungo il Saebraut arrivo al Solfar, la scultura che l’artista Jon Gunnar Arnason realizzò per la celebrazione del duecentesimo anniversario di Reykjavik, ispirandosi alle antiche barche vichinghe. È fatta di lucente acciaio e di remi stilizzati che arcuandosi arrivano fino in terra facendola sembrare uno strano insetto proteso in avanti nell’atto di tuffarsi nelle acque scure. La piattaforma circolare su cui è appoggiata è uno specchio che riflette la scultura dando l’impressione che la barca stia davvero galleggiando sull’oceano. Arnason con la sua idea di viaggiatore del sole, questa è la traduzione della parola “Solfar”, voleva rappresentare le navi che navigarono in direzione ovest verso il tramonto. La scultura infatti simboleggia la promessa di un nuovo territorio da scoprire: praticamente la storia della nascita del popolo islandese.

Terra disabitata e vuota, l’Islanda fu scoperta nel vero senso della parola, e non come l’America già abitata prima dell’arrivo degli europei. DSC_0300L’isola fu colonizzata da coraggiosi uomini che arrivarono in nave solcando le gelide acque tempestose di quello che veniva definito oceanus innavigabilis.

L’era della colonizzazione d’Islanda comincia relativamente tardi, nell’870 d.C. dopo che i vichinghi provenienti dalla Norvegia vi approdarono.

Già nell’865 il norvegese Floki Vilgerdarson in fuga dal paese natìo a causa di sanguinose dispute politiche, provò a stabilirsi sull’isola, ma venne respinto da questa terra aspra e indomabile. Per due anni tentò di avviare un insediamento stabile, ma scoraggiato dalle terribili condizioni meteorologiche e gli imponenti iceberg che galleggiavano alla deriva, dovette rinunciare. Infine si ritirò sconfitto e con rammarico ribattezzò l’isola “Island”, terra di ghiaccio.

I norvegesi ci riprovano nell’871 con Ingolfur Arnarson che riuscì a resistere e passò alla storia come il primo colonizzatore dell’Islanda. Ebbe così inizio l’era della colonizzazione in cui i contadini della penisola scandinava, in fuga dal dispotico re norvegese, si riversarono in massa sull’isola con la speranza di libertà e indipendenza. È una storia per certi versi simile alla colonizzazione dell’America: persone in cerca di una vita migliore che sognano una nuova terra in cui ricominciare da capo, lontani dalle ristrettezze del vecchio continente.

Se per gli europei il nuovo continente rappresentava l’American Dream, per i norvegesi di allora la lontana isola nell’Atlantico era il loro Icelandic Dream. Finalmente nel 930 i coloni proclamarono lo Stato Libero d’Islanda, e fondarono il primo parlamento d’Europa, a Thingvellir, 50 chilometri da Reykjavik.

 

 

 

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